Troglodita Tribe S.p.A.f. (Società per Azioni felici)

13 marzo 2023

CHIUDIAMO I CANILI

Filed under: Antispecismo, cani liberi, editoria creativa casalinga — Tag:, — Fabio Santa Maria @ 1:05 PM

Brevi note a margine a un anno dalla pubblicazione del libro

di Troglodita Tribe Ortica Editrice

PRIMA NOTA A MARGINE

Siamo felici di aver immaginato, desiderato, scritto, autoprodotto e infine anche pubblicato (con Ortica Editrice) un libro che, a nostro avviso, mancava, un libro che, già dal titolo, CHIUDIAMO I CANILI, non lascia alcuna possibilità di fraintendimento.

Siamo felici per l’interesse suscitato in alcuni ambiti del mondo antispecista (che ci aspettavamo), ma anche per il buon impatto che ha avuto nel mondo della cinofilia e nel mondo di chi, nei canili, ci lavora e presta opera di volontariato (che non ci aspettavamo).

SECONDA NOTA A MARGINE

Come c’era da aspettarsi, il libro ha ricevuto diverse obiezioni che, in sostanza, si possono tutte riassumere nelle seguenti tre affermazioni.

  • La più gettonata e certamente la più classica è «MA DOVE LI METTEREMO, POI, TUTTI I CANI (RANDAGI, LIBERI, RIFIUTATI…) SE CHIUDIAMO I CANILI?»
  • La seconda è leggermente più sfumata perché, pur riconoscendo l’ingiustizia del canile, cerca di correggere il tono “esagerato” e sicuramente radicale del titolo stesso (CHIUDIAMO I CANILI) e risponde: «NO, CHIUDERLI NON È POSSIBILE, CASOMAI OCCORRE RIFORMARLI!»
  • La terza si spinge oltre, ma all’urgenza che anima il titolo (che condivide) preferisce contrapporre buon senso e sano realismo. «SI’, IN TEORIA, SONO D’ACCORDO, ANDREBBERO CHIUSI I CANILI, MA NELLA PRATICA NON È POSSIBILE, CI SERVONO!»

Il fatto più interessante, però, è che queste obiezioni sono state scritte e dette, nella quasi totalità dei casi, senza aver letto il libro.
Un fatto degno di nota perché ci ha permesso di toccare con mano quanto l’ingiustizia canile sia radicata nel comune immaginario, così tanto che, pur essendo evidente la sua odiosa essenza, pur essendo assai complicato riuscire a giustificarla, è difficile anche solo pensare di farne a meno. Di conseguenza è più che sufficiente il titolo (CHIUDIAMO I CANILI) per sentirsi in dovere di esprimere il proprio disorientamento, il proprio disappunto.

In fondo, è il contenuto stesso del libro, a rispondere alle obiezioni. Lo fa mostrando la semplice evidenza dell’ingiustizia, entrando nei particolari, svelando (seppur in modo agile e con la massima semplicità) la storia del canile, il reale motivo per cui nasce e come si sviluppa. Lo fa affermando senza mezzi termini le connessioni con altre forme di reclusione e di ingiustizia che caratterizzano le nostre mappe mentali radicate nello specismo. Non lasciando spazio all’illusione della riforma che, piano piano, rimetterà a posto le cose, insinua il dubbio di aver sbagliato tutto, di dover per forza e con un urgenza invertire la marcia e, proporio per questo, finisce per generare fastidio sin dal titolo.

Di fatto, pubblicando questo libro, ci siamo trovati di fronte alle identiche obiezioni e critiche già sentite nel corso dei secoli e riproposte ad ogni sussulto di liberazione. «Dove li metteremo tutti i neri senza la schiavitù?» «Che fine faranno tutti i matti senza manicomio», «E come sopravviveranno tutti gli animali senza allevamenti?»

È così che ogni ingiustizia riesce a radicarsi: assumendo la connotazione dell’indispensabile necessità. In un perverso gioco al ribasso, poi, proprio da chi ne denuncia la cinica e aberrante esistenza, proprio da chi si impegna per smantellarne i presupposti, l’architettura e la psicologia, si pretende un’alternativa, qualcosa che sostituisca immediatamente il canile, il manicomio, la schiavitù. In altre parole si pretende che un’altra ingiustizia sostituisca quella precedente, quella a cui siamo abituati, quella che ci tranquillizza, perché è ormai parte del nostro immaginario, del nostro modo di percepire il mondo.

Eppure abbiamo un estremo bisogno dei cani, abbiamo bisogno che cessi al più presto la loro trasformazione in pet, in merce da lavoro o da spupazzamento. Da secoli sono i compagni di strada a noi più vicini, quelli che ci stanno indicando la via delle comunità e delle aggregazioni multispecie, la soluzione più ovvia e lampante per la sopravvivenza su questo pianeta. A questa preziosa indicazione, però, stiamo ancora rispondendo con i canili, le catene e gli allevamenti.

TERZA NOTA A MARGINE

Dopo CHIUDIAMO I CANILI il nostro desiderio di slegare, una buona volta, la parola padrone dalla parola cane, non si è certo esaurito e quindi presto uscirà CANI E CATENE (con Malamente Edizioni), un nuovo libro che prova a chiedersi come sia possibile che, proprio quelle catene, siano ancora così pesanti e drammaticamente presenti nel nostro rapporto con i cani. Una presenza reale e tangibile che passa spesso inosservata, di fronte alla quale si tende a passare oltre, per non restare invischiati nel carico di disagio che comporta. Abbiamo provato a raccontare le devastanti conseguenze di queste catene (sia a livello reale che simbolico) e come ci riguardino direttamente, ma anche l’emozione, la difficoltà e l’estrema urgenza di spezzarle. É un libro che prova a destrutturare il luogo comune del “nostro miglior amico”.
Stiamo anche lavorando a un altro libro di storie minime ed esagerate (sempre sui cani che si ribellano e resistono), un progetto che prova a uscire dal classico pamphlet militante per cercare di diffondersi con un linguaggio e un approccio differente.

ULTIMA NOTA A MARGINE

Per finire un ringraziamento a chi ha creduto e sostenuto CHIUDIAMO I CANILI, a chi ne ha parlato e scritto contribuendo così alla sua difficile diffusione.

In particolare:

12 ottobre 2022

RICORDI D’AMORE FANTASCIENZA CANI E ANTISPECISMO

Filed under: Antispecismo, cani, liberazione, libri — Tag:, , — Fabio Santa Maria @ 2:15 PM

Uno dei più intriganti ragionamenti proto antispecisti che abbia mai sentito me lo espose, mentre camminavamo lungo una strada trafficata, la donna di cui mi ero appena innamorato.
A quei tempi, sarà stato il 1996 o ’97, abitavamo entrambi a Milano e, quando ci incontravamo dopo il lavoro, avevamo preso l’abitudine di camminare senza meta per delle ore percorrendo, ogni giorno, diversi itinerari, perdendoci per le vie della città, fermandoci nei parchi, nelle librerie, più raramente nei cinema e nelle birrerie. Sono passati più di venticinque anni, allora neppure sapevo che esistesse la parola antispecismo e, come ho scoperto nel corso di una vita insieme, di tanti chilometri e battaglie vissute insieme, non la conosceva neanche lei.

Quel giorno, comunque, stavamo parlando di cani, di quanto ci piacessero i cani sin da quando eravamo bambini, di cosa significasse, per noi, vivere con un cane. Amavamo entrambi le digressioni e fioccavano anche, velocissime, parole tipo anarchia, cyberpunk, femminismo, letteratura, autosufficienza, famiglie allargate, lesbismo, amore e libertà. Poi lei si fermò improvvisamente e mi confidò il suo ragionamento antispecista. Aveva già vissuto con diversi cani e mi poteva assicurare che, in tutta onestà, in quanto ad affetto, non vedeva particolari differenze con i suoi figli, provava lo stesso trasporto, lo stesso rispetto, lo stesso amore. Trattava i figli da umani e i cani da cani, avevano diverse necessità, diverse età, diversi approcci. Gli uni erano nati da lei, gli altri no, ma che importava, erano comunque i membri della sua famiglia allargata (oggi si potrebbe chiamare famiglia multispecie), del suo gruppo di affinità, del suo branco e, proprio per questo, avevano la stessa priorità, la stessa importanza.

Ricordo che rimasi senza parole. Era un ragionamento che non avevo mai sentito, immaginato, ipotizzato. Lo sentivo farsi strada nella mia mente e nel mio cuore ad una velocità impressionante. Lo soppesavo in tutta la sua schiettezza e in tutte le sue affascinanti sfumature libertarie che mi permettevano di andare oltre gli immaginari in cui ero cresciuto, oltre le teorie e i libri che avevo letto.
Poco dopo ci ritrovammo nella zona di piazza Duomo ed entrammo alla Libreria delle Donne che allora era in Via Dogana e, ben conoscendo la mia passione per la fantascienza, mi regalò un libro di Ursula Le Guin dal titolo “Aliene, Amazzoni, Astonavi”.

10 ottobre 2022

ANCORA INDIFFERENZA

Filed under: Antispecismo, cani — Tag: — Fabio Santa Maria @ 2:16 PM

di Troglodita Tribe

(Articolo scritto per la trasmissione radiofonica “Restiamo Animali”)

Alcuni giorni fa a Vittoria in provincia di Ragusa, in pieno centro storico, è stata ritrovata nel suo appartamento un’anziana signora morta da una settimana, probabilmente per un malore. Accanto al corpo, oramai in avanzato stato di decomposizione, c’era anche il cadavere del suo cane che è morto di fame e di sete.
Una notizia ripresa dalle cronache, più che altro, sotto forma di segnalazione, uno scarno trafiletto di qualche riga e poi più niente.
Perché in fondo si tratta di una notizia che non fa più notizia, un fatto a cui siamo abituati.

Persone anziane che muoiono in casa e che restano lì, dimenticate per giorni e giorni. E accanto a loro, spesso, muore anche un cane.
Non c’è neppure bisogno di effettuare ricerche elaborate, e subito, in rete, appaiono parecchi casi: Vittoria, Voghera, Milano, Padova… da nord a sud. Sempre lo stesso trafiletto, sempre la stessa situazione: un malore, anche una morte naturale, i giorni che passano, nessuno si accorge di nulla e poi il cane, che resta intrappolato, che magari abbaia, che muore di stenti.

La prima riflessione che viene in mente, in genere, è che non ci potevamo fare niente, che la morte arriva così, all’improvviso e se una persona vive da sola, come capita a molti anziani, è normale che i soccorsi non possano arrivare in tempo. C’è, però, un senso di desolazione e di abbandono in queste morti, ci ricordano quanto le nostre città e paesi, che sono insediamenti sociali, che abbiamo inventato per stare insieme, per prenderci cura gli uni degli altri, stanno diventando, sempre di più, dei deserti affollati dove si comunica e si condivide poco, pochissimo, dove si muore da soli, dimenticati, dove la regola è quella di farsi i fatti propri.
Già, ma il cane?
Il cane, animale sociale per eccellenza, che vive in branco, che tende a formarlo con gli individui che conosce, di cui si fida, anche il cane, che è ormai diventato a tutti gli effetti un oggetto di proprietà, non ha via di scampo.

Siamo di fronte alla più evidente degenerazione di quel farsi i fatti propri che è diventata quasi una bandiera della modernità. Ci facciamo i fatti nostri così tanto da non accorgerci della gente che muore a pochi passi da noi, da non riuscire a vedere i piccoli inferni racchiusi in molte delle nostre case. Ma, soprattutto, siamo così abituati a farci i fatti nostri che, anche quando qualcuno chiede aiuto, magari abbaiando, neppure riusciamo a recepire il messaggio, neppure ci viene in mente che una persona anziana, che vive sola con un cane, dovrebbe essere aiutata, che spesso, anche quel cane, ha proprio la vitale necessità di qualcuno che, semplicemente, lo tenga in considerazione.

Oggi, offrire la propria solidarietà, quell’antica solidarietà dovuta per il solo fatto di essere individui che abitano negli stessi insediamenti, negli stessi territori, è sempre più difficile. Offrire questa solidarietà così, spontaneamente e senza mediazioni, quasi per istinto, è un fatto che, quasi quasi, viene visto con sospetto.
E forse, proprio per questo, è anche un atteggiamento fortemente destabilizzante, quasi sovversivo. Perché non stiamo parlando del paternalismo che concede qualcosa dall’alto della sua virtuosa bontà, ma del porsi sullo stesso piano degli altri individui, del condividerne i bisogni, del prendersene cura, del riconoscerne il valore per poter procedere insieme nel migliore dei modi, ignorando bellamente i ruoli e le categorie sociali, la razza e la specie.
Una pratica vecchia come il mondo che gli anarchici chiamavano mutuo appoggio, e che anche i cani, procedendo al nostro fianco da millenni, continuano a indicarci.

21 settembre 2022

Da Milano alla Sicilia – Traferirsi al mare tra sole e spine

Filed under: libri, Sicilia — Tag:, , , — Fabio Santa Maria @ 11:16 am

É appena uscito per la casa editrice GAEditori di Enna, il nuovo libro “Da Milano alla Sicilia – Trasferirsi al mare tra sole e spine” di Fabio Santa Maria pagine 128 euro 12. Una sorta di antiguida, il diario di bordo di chi ha scelto di percorrere, in senso inverso, la storica avventura dei tantissimi siciliani che si sono spostati e continuano a spostarsi verso il nord.

L’autore racconta le avventure e le disavventure, le meraviglie climatiche e paesaggistiche, ma anche la cultura e la bellezza architettonica di questa strana isola che gli appare un po’ folle, piena di contrasti, dove gli estremi si toccano con disinvoltura. Ci mostra, abbandonando per principio la sterile lamentela come il fastidioso giudizio altezzoso, anche il degrado, l’abbandono, il desolante far west burocratico e sociale che gli viene inesorabilmente incontro. Sceglie, però, anche chiedendo aiuto ad autori e artisti siciliani, un taglio ironico, a tratti meravigliato e stupito. Nel corso delle tante esperienze descritte, poi, prova a trovare un equilibrio, tenta di capire e, soprattutto, prova a non rassegnarsi al degrado.

Il luogo da cui scrive è la classica veranda di una casuzza siciliana situata a pochi chilometri dal mare, sulla punta sud orientale, proprio di fronte all’Africa. Per raggiungerla deve percorrere strade sterrate piene di buche, vie senza numerici civici e senza illuminazione, ma quando arriva gli capita anche di sentirsi al centro del mondo, perché lo vengono a trovare amici olandesi che approfittano dello smart working solo per poter respirare un “po’ di Sicilia”, perché passano sportivi americani, cicloturisti tedeschi, cani liberi, ma anche la vicina di casa che gli regala arance, limoni e melograni e, snocciolando frasi in siciliano, racconta di antiche usanze come la raccolta del gelsomino che avveniva, proprio nelle vicinanze, in piena notte.

Un libro che consente di guardare la Sicilia con gli occhi e la sensibilità di chi, trasferito dal nord, l’ha scelta per viverci cercando di partecipare e di confondersi con chi ci è nato, dove troverete le sue considerazioni su questo “sport estremo” che è il trasferirsi in un’isola dalle potenzialità strabilianti e dalla bellezza devastante. Un’isola sulla stessa latitudine della California che vede i suoi giovani scappare ma che, nello stesso tempo, è anche l’ambita meta di tantissime persone che vorrebbero “mollare tutto” e andare a vivere in Sicilia.

Il libro può essere richiesto in libreria o essere ordinato nei principali store online.

Ad esempio qui https://www.ibs.it/da-milano-alla-sicilia-trasferirsi-libro-fabio-santa-maria/e/9788832048766?queryId=6a8cd20e0c30bab573072f2c7afb8d9c
Oppure si può richiedere scrivendo a troglotribe@libero.it

11 agosto 2022

LOLA E LILLY: STORIE DI OCHE

Filed under: animali liberi, Antispecismo, liberazione — Tag:, , — Fabio Santa Maria @ 7:01 am

A Donnalucata, una piccola frazione marinara in provincia di Ragusa, nel mese di luglio un’oca si è installata sulla spiaggia, proprio nei pressi di Lido Palo Rosso, già frequentato dai bagnanti. In un primo momento viene notata solamente nelle ore serali, mentre il resto del giorno lo trascorre nascosta tra gli scogli. L’avvistamento, però, viene segnalato sui social, desta curiosità e attenzione, soprattutto sui gruppi della zona dove vengono postate foto dell’oca che passeggia sulla spiaggia, che nuota nel mare, che becchetta le alghe. C’è chi teme non possa sopravvivere in quelle condizioni, chi propone di segnalarla alle autorità, chi racconta di averle portato pane e acqua dolce, ma anche chi si arrabbia sottolineando che le oche non mangiano il pane e che bisogna solo lasciarla in pace.

Nel frattempo l’oca prende confidenza con l’ambiente e comincia a farsi vedere anche di giorno, esce proprio sulla battigia tra i bagnanti. In breve diventa la mascotte della zona e viene chiamata Lola. La notizia è riportata anche sui giornali locali e Lola diventa un argomento caldo che divide. Bisogna “salvarla” o lasciarle vivere in pace la sua libertà?

L’aspetto interessante di questa situazione è che una netta maggioranza si schiera in favore della libertà. Alcuni, addirittura, invitano a smettere di fotografarla, a smettere di attirare l’attenzione su di lei, perché è un fatto che potrebbe disturbarla. E non si tratta certamente di attivisti o gruppi animalisti. Sono, più semplicemente, le persone del posto, i turisti che frequentano la spiaggia, o anche chi, casualmente, viene a conoscenza della storia e cerca di dare informazioni, di esprimere la sua opinione.
Dopo più di un mese, però, Lola scompare e il caso monta ancora di più.
C’è chi dice sia stata sequestrata dalle autorità, chi sostiene che siano intervenute le associazioni, chi teme il gesto di qualche teppista o che qualcuno l’abbia fatta arrosto.
Passano giorni di deprimente sconforto e anche di rabbia, quando finalmente compare un video anonimo in cui l’oca Lola viene ripresa insieme ad altre oche in un giardino con tanta acqua a disposizione. Zampetta, si tuffa, nuota, sta bene! Il video è anonimo, ma tranquillizza l’opinione pubblica sulla buona salute e sulla felicità di Lola.

La storia ricorda un’altra oca famosa: Lilly, a cui venne dedicato un vero e proprio monumento. Siamo nel 1970 a Sievering, un sobborgo di Vienna e, proprio sulle rotaie del tram 39, l’oca Lilly ama sostare senza curarsi dei pericoli, senza calcolare che il tram, in ogni caso, ha sempre la precedenza. Per poter proseguire il percorso, i conducenti, ogni volta, devono scendere, prendere in braccio e spostare gentilmente Lilly che, subito dopo, torna al suo posto. Questa simpatica scena deve essersi ripetuta centinaia e centinaia di volte, fino al punto di caratterizzare fortemente l’immaginario della gente del posto. Fino al punto di correggere la normale assurdità che pretendeva e pretende di schiacciare qualunque ostacolo che si frapponga alle necessità e ai bisogni umani.
L’oca Lilly, in un certo senso, diventa una cittadina di Seviering e, fino all’agosto del 1970, si è sempre presentata sui “suoi” binari per lasciarsi spostare solo quando ce n’era davvero bisogno, quasi a voler testimoniare che una convivenza umano-animale è pur sempre attuabile, anche in condizioni apparentemente impossibili.
La gente del posto ha voluto ricordare l’oca Lilly con un vero e proprio monumento che la raffigura su un grosso binario e segna in modo poetico la concreta possibilità di pacifica convivenza e di rispetto della libertà animale. Il monumento, voluto dalla popolazione, riporta anche una targa in cui si narra la storia dell’oca Lilly.

Ciò che colpisce maggiormente di queste due storie di oche è proprio la questione della convivenza, di come la possibilità di vivere con gli animali liberi sia ancora sentita da molti umani, anche nelle situazioni più improbabili, anche su una spiaggia affollata di turisti o, addirittura, sui binari del tram. Una convivenza che dovrebbe giocarsi soprattutto sulla nostra capacità di adattarci alla loro presenza, di rispettarli nella loro differenza, a volte anche remando contro le nostre paure, contro il cosiddetto “buon senso” che li vuole al sicuro e protetti da ogni pericolo. Lola, proprio per queste ragioni, è stata spostata dalla spiaggia di Donnalucata, alla fine qualcuno è intervenuto nella convinzione di riservarle un destino migliore. Mentre Lilly ha potuto vivere tutti i suoi anni nel posto che aveva scelto.

In entrambi i casi, però, una buona fetta di umani si è schierata dalla parte della libertà, del rispetto e della pacifica convivenza tra diverse specie, ma è sempre più evidente che dobbiamo affinare la nostra capacità di adattarci alla loro presenza e di accettare totalmente la loro autonomia e la loro capacità di scegliere il luogo dove sostare, muoversi, e vivere.

27 giugno 2022

DALLA PARTE DI CHI MORDE

Ciclicamente la cronaca ci riporta le agghiaccianti notizie di cani che mordono individui umani, che ne provocano mutilazioni e a volte anche la morte. I casi, per quanto rari, vengono sempre trattati con enfasi e suscitano, come è normale che sia, paura e diffidenza. Soprattutto se ad essere aggrediti sono i bambini, alimentano un immaginario che inquadra il cane, ma più in generale l’animale, come una bestia feroce e pericolosa che deve essere rinchiusa, abbattuta, tenuta lontano dalle nostre pacifiche società evolute e superiori.

Eh sì! I cani mordono.
Questo è un dato di fatto.
Hanno i denti e li usano anche come un’arma, soprattutto per difendersi, quando percepiscono una minaccia o un pericolo.
Questo dato di fatto, che non dovrebbe sorprendere nessuno, è troppo spesso dimenticato o, perlomeno, poco valutato quando pensiamo e definiamo il cane come nostro “miglior amico”.

In realtà, abbiamo sempre cercato di selezionare i cani e manipolarli per ottenere individui fedeli, docili, utili e servizievoli. Individui belli da vedere e da toccare o, al contrario, individui feroci e minacciosi che tenessero lontani i malintenzionati dalle nostre case, ma che fossero anche in grado di sacrificare la vita pur di difendere la nostra incolumità o le nostre proprietà.

In sostanza, li abbiamo scelti anche per la loro naturale aggressività, per il fatto che usassero i denti anche per mordere.

Quando, però, in questa operazione di selezione, qualcosa va storto, ci scandalizziamo, chiediamo che si prendano provvedimenti contro i cani, magari contro qualche particolare razza che, nell’immaginario collettivo, ma quasi mai nelle statistiche e negli studi documentati, viene identificata come più feroce e mordace delle altre.

E’ un atteggiamento radicalmente specista dove l’amicizia, in realtà, c’entra poco o nulla. Manipolare i cani per fare in modo che rispondano alle nostre esigenze, per poterli meglio utilizzare e sfruttare è, infatti, una forma di dominio che caratterizza il nostro normale rapporto con loro e con tutti gli altri animali.

All’opposto, una forma essenziale di rispetto e di amicizia, dovrebbe spingerci, tanto per cominciare, a considerare i cani come individui dotati di una naturale aggressività. Individui che potrebbero usare i denti proprio come noi potremmo utilizzare le mani. Individui che, una volta sottoposti a forti cariche di stress (come ad esempio durante la prigionia, quando si è costretti in ambienti malsani e isolati, quando manca la socialità con i simili) potrebbero trasformare questa naturale aggressività in un vero e proprio attacco. Esattamente come accade a noi umani.

Questo rispettoso riconoscimento, allora, ci spingerebbe con più facilità a cercare di capire il loro linguaggio, i loro messaggi, i loro bisogni essenziali, ci spingerebbe a riconoscere il disagio che esprimono, a prendere provvedimenti per cercare di arginarlo, per smettere di provocarlo.

In realtà, i trafiletti che documentano le aggressioni da parte dei cani, raramente ne forniscono anche una dettagliata ricostruzione e tendono, più che altro, a sottolineare la ferocia del cane e il dramma della vittima umana. Ma a voler approfondire, poi, viene alla luce quasi sempre una situazione di frustrazione, di isolamento, di squilibrio da parte del cane che, nel corso della sua vita, non ha avuto la possibilità di confrontarsi, di fare esperienze, di distinguere una normale situazione da una reale minaccia per la sua incolumità. Nella maggior parte di questi casi, infatti, il cane aggredisce proprio per difendere se stesso o i suoi cuccioli, per rispondere a ciò che percepisce come un pericolo imminente. Anche se non è tale. Si scopre, allora, come il malaugurato incontro è stato carico di malintesi, come è arrivato al drammatico risultato finale dopo una lunga serie di difficoltà da parte del cane stesso che, dal canto suo, ha tentato in ogni modo di comunicare un disagio.

Ma la risposta al disagio di un cane, quasi sempre, è la reclusione in un canile dove la paura, l’isolamento, la depressione, la rabbia, immancabilmente, aumenteranno, fino a diventare un baratro senza vie d’uscita. Il cane che esprime un disagio, infatti è identificato come una scocciatura, un fastidio. Difficilmente si cerca di mettere in discussione le motivazioni che l’hanno generato, difficilmente si è disposti a prendere i provvedimenti essenziali, che necessitano di attenzione e professionalità.

Dopotutto, le nostre comunità, che consideriamo così pacifiche, evolute e liberali, ma che soprattutto consideriamo essere composte da individui umani e superiori, non sono disposte ad andare incontro ai cani, a compiere il minimo passo indispensabile, a studiare il loro linguaggio, le loro elementari caratteristiche etologiche, il loro modo di esprimersi e di comunicare. Non sono disposte ad adattare le architetture, i paesaggi, gli stili di vita tenendo conto anche della loro presenza. Così continuiamo a scegliere i nostri cosiddetti migliori amici in base al colore del pelo, alla razza, alle mode o alle caratteristiche fisiche che potrebbero tornarci utili, che potrebbero piacerci o intenerirci. Continuiamo a comprarli e a venderli come merce che stocchiamo nei canili quando smette di soddisfarci o crea qualche problema di convivenza. Veri e propri campi di concentramento dove i cani che esprimono un disagio vengono rinchiusi. Luoghi dove non è possibile neppure iniziare un percorso di recupero. Ed è qui che finiscono i cani che mordono. Senza via d’uscita.

Ma i cani, quando ci mordono, esprimono un disagio esistenziale che ci riguarda profondamente, lo fanno quando, arrivati ormai al limite della frustrazione, non hanno altra scelta. Sono la rappresentazione del baratro specista a cui li stiamo conducendo. E invece di cercare di comprendere, riparare, favorire, tendiamo a creare lo scandalo della bestia feroce, fin quasi a dimenticare che stiamo camminando insieme a loro da millenni, un privilegio che, probabilmente, non abbiamo mai meritato.

Questo testo di Troglodita Tribe è stato letto durante la trasmissione radiofonica “Restiamo Animali” che si può ascoltare per intero qui.
Un seguito alle riflessioni scaturite dal nostro libro “Chiudiamo i canili” Ortica Editrice

26 giugno 2022

IL BLUES DEL FALSO EDITORE ANSIOSO

Se c’è una cosa che non sopporto è presentare i miei libri.
Presentarli in modo canonico, parlandone in pubblico intendo, alzando la voce da tenore pur di far sapere al mondo che li ho scritti. Mi manca il fiato, mi viene l’ansia solo a pensarci. E poi se avevo la stoffa per esibirmi facevo il cantante, l’attore, al limite il politico.
E tu non presentarli!
Infatti per tanti anni ho pubblicato libri impresentabili. Fotocopiavamo, con la mia compagna, una micro tiratura per ogni testo, realizzavamo le copertine con i cartoni dei supermercati, stampavamo i titoli sui retro dei volantini colorati, per poi ritagliarli e incollarli. Oppure, se erano titoli di una parola o due, li scrivevamo direttamente con lo smalto per unghie o con i timbri.
Li tagliavamo in diversi formati e li cucivamo a mano questi manufatti, uno a uno.
Sì, lo so, non erano libri. E infatti li chiamavamo libelli, libroidi mutanti, scartafacci.
Costruimmo pure dei “libri” da taschino dotati di copertina ricavata da trancetti di cartoline illustrate. Utilizzammo di tutto, pure le vecchie radiografie. Per un testo surreale dal titolo “L’arte come merda la merda come arte” scegliemmo i cartoncini per raccogliere la cacca dei cani. Con una vecchia stampante ad aghi riuscii a scrivere su un rotolo di etichette dei pelati, ma anche sulla carta a doppio strato dei sacchetti del cemento. Riuscimmo ad usare un campionario di tappezzeria anni settanta per confezionare patenti per scrittori e scrittrici, patenti con lo spazio per la foto, da compilare anche con l’incipit del primo libro realizzato, patenti iene di provocazioni da sfoggiare al posto dei documenti veri.
Piacevano un sacco.
E noi ci divertivamo un mondo.
Tutto quello che raccoglievamo: dalle cartellette da ufficio ai scartati da un calzaturificio che utilizzammo per un libello sulle gioie dell’andare a piedi, dai pacchetti di fiammiferi (per la collana Al Fuoco!) ai tranci dei vecchi vinili, poteva essere trasformato in libro, pardon, libroide. Poteva, come minimo, diventare una copertina. Ne realizzammo diverse con i biglietti del tram di Milano, erano così micro e così pop che ci costrinsero a produrre un’intera collana: ATM (Atipici Testi Misti).
Con il nostro notevole assortimento di prodotti editoriali riciclati e riusati, diventammo falsi editori: ci infiltravamo all’interno di fiere e festival di provincia e diversi giornalisti, blogger e organizzatrici di mostre ed eventi ci scambiavano per editori veri, ci intervistavano, ci invitavano.
Sbarcavamo il lunario senza difficoltà.
Erano libelli drasticamente impresentabili, nel senso che non avrebbe avuto senso presentarli e raccontarli, facevi molto prima a consumarli sul momento, materiale effimero che si scioglieva come neve al sole. Ma nello stesso tempo belli da possedere, sfiziosi da collezionare, accattivanti da regalare. Una variante scintillante al concetto di libro, ma non un libro d’artista, piuttosto un libro troglodita. C’erano assaggi di saggi sulla sfiga che non esiste e sull’ozio estremo che induce a scrivere meno, molto meno, c’era un’istigazione realizzata con gli sconti dei supermercati intitolata I gruppi di non acquisto, c’era l’elogio delle delle briciole e pure l’anti arte femminista di Mostriamo il mestruo, macchiato con vero sangue mestruale.
Poi il terremoto.
Quasi un castigo divino.
Un terremoto vero che ci costrinse a cessare l’attività, ad abbandonare la nostra casa in pietra al limite del bosco, quella casa dove lavoravamo, dove avevamo accumulato tonnellate di scarti, ritagli, confezioni, cartine e copertine, quei boschi dove avevamo raccolto anche i nidi caduti dagli alberi per arricchire uno dei nostri best seller, un poetico libro in scatola che spuntava, appunto, dal nido.
Ci trasferimmo in Sicilia, terra meravigliosa, patria di illustri letterati e premi Nobel. Terra dove le case e la vita costano molto meno, terra di sole e mare. Terra, però, con pochissimi lettori, con poche librerie e quasi nessun festival dell’editoria.
In quel contesto, i nostri libri clandestini, fatti con gli scarti, auto costruiti, rilegati con cuciture estemporanee e piccole acrobazie sartoriali, dipinti, disegnati, macchiati, bruciacchiati, con inserti di carta fatta a mano, di collage, con tocchi di materiale di risulta, non trovavano terreno per fiorire.
Alla fine fummo costretti a scrivere libri veri per editori veri. Per sfinimento, per necessità.
Certo che li amo i libri, sono un lettore estremo, tanto che uno dei nostri primi libroidi mutanti s’intitola proprio così: I lettori estremi, E sfondavamo una porta aperta, visto che i nostri clienti erano, appunto, lettori estremi, scrittrici compulsive, grafiche, graffittari e pubblicitarie, gente con uno spiccato senso dell’umorismo editoriale.
Sì lo so, sono molto più nobili i libri veri, solo che ci avevo preso gusto con quei loro fratellini scapestrati, con quelle loro sorelline perdigiorno, vere streghette disertore, insubordinate, irriducibili e, soprattutto, impresentabili.

11 giugno 2022

TRA IL PRIMO E IL SECONDO PIANO L’ASCENSORE SI FERMA DI BOTTO…

La buona notizia è che sono riuscito a incrociare la ragazza del terzo piano.
Siamo entrati insieme in ascensore e abbiamo scambiato qualche parola. Era più di un mese che ci sorridevamo da lontano e adesso finalmente è qui.
Solo che c’è anche la cattiva notizia…
Tra il primo e il secondo piano l’ascensore si ferma di botto.
Schiaccio di nuovo il terzo e niente. Schiaccio il piano terra e neanche a parlarne.
A molti potrebbe sembrare l’occasione d’oro, quasi da film. Ma se in ascensore c’è un ansioso, la commedia sentimentale si trasforma puntualmente in dramma. In alcuni casi anche in horror.
Il fatto allucinante, poi, è che non posso certo esternare quello che penso come se niente fosse. Non posso uscirmene bello bello col classico: “Ormai è finita, moriremo soffocati!”.
Oltre all’angoscia claustrofobica d’esser chiuso in questa maledetta trappola, devo pure fingere che si tratti di un normalissimo inconveniente, una cosa che si risolve in pochi minuti. Il tempo di suonare l’allarme e il portiere aprirà le porte.
Già, ma se ci fermiamo tra un piano e l’altro, come diavolo fa il portiere ad aprire le porte?
Il solito drammatico-ansioso-catastrofico!
Come vuoi che faccia? Come sempre! All’ultimo piano c’è un locale-ascensore da dove si può manovrare la cabina manualmente per riportarla al piano e aprire le maledette porte. Lo sanno anche i bambini.
Al limite, se proprio non si riesce ad aprire, si chiama in soccorso qualcuno. Sulla pulsantiera dei comandi c’è sempre un numero di telefono: basta chiamare e arriva il tecnico col suo bel borsone di attrezzi che mette tutto a posto.
La mia mente galoppa alla velocità della luce.
E mentre immagino il tecnico che corre col furgone a sirene spiegate, che rimane senza benzina, che chiama un altro tecnico, che lo fanno attendere in linea tre quarti d’ora, che non ci sono più tecnici disponibili perché proprio in quel momento si sono bloccati altri cento ascensori della stessa azienda, mentre immagino anche il portiere che sale le scale con l’affanno per arrivare al locale ascensore, mi rendo conto che sono passati solo dieci secondi da quando siamo fermi tra il primo e il secondo piano. E nemmeno cinque da quando ho premuto il pulsante dell’allarme.
Lei mi guarda un po’ preoccupata e dice: «Cavolo, si è bloccato l’ascensore!»
Schiaccio di nuovo freneticamente il piano terra.
«Già, sembrerebbe proprio bloccato…» confermo, cercando di non guardarla.
Il solo fatto di ripetere che l’ascensore è bloccato mi manda sempre più nel panico. “Bloccato” è proprio un termine che non si dovrebbe usare dentro un ascensore bloccato. “Fermo” magari, oppure “in pausa”, o ancora meglio “momentaneamente indeciso se muoversi verso l’alto oppure verso il basso”…
Ma non “bloccato”!
“Bloccato” ha quel suono così irreparabile, è l’anticamera di un attacco di panico.
Che poi non posso nemmeno permettermelo, visto che sono bloccato con una ragazza che ora aggiunge anche di aver paura di rimanere intrappolata in un ascensore. E lo sottolinea pure, quell’intrappolata, come se fosse la camera della morte che tra poco si riempirà d’acqua facendoci annegare senza scampo.
«Ma no, non c’è da preoccuparsi» le dico in un rantolo strozzato con quel po’ di ossigeno che ancora mi è rimasto in corpo. «Abbiamo appena suonato e ora il portiere ci aprirà le porte. Un po’ me ne intendo di ascensori. Sono ipersicuri, hanno il doppio cavo, le guide laterali, il limitatore di velocità, il freno. E poi, in caso di guasti si manovrano a mano dall’alto…»
«Te ne intendi davvero? Sei un ingegnere?»
Ecco, ora diglielo che ti sei buttato a studiare come funziona l’ascensore solo perché eri terrorizzato di precipitare dall’ottavo piano, o di rimanere bloccato – anzi intrappolato – fino a morirci dentro per il panico. Diglielo che hai calcolato la media dei tempi utilizzati dai tecnici per ogni intervento e che solo dopo aver scoperto – statistiche alla mano – che era molto più probabile cadere dalle scale che dall’ascensore, ti sei deciso a utilizzare quello del condominio.
Invece, da bravo ipocrita, riesco anche a sorridere e a dirle che no, non sono un ingegnere, ma scrivo racconti e allora sono sempre molto curioso di scoprire come funzionano le macchine. Tutte le macchine.
Poi l’ascensore comincia a muoversi lentamente, con piccoli balzi da brivido.
«Ecco», confermo, «qualcuno dall’alto sta riportando la cabina al piano. Lo sapevo io che non c’era da preoccuparsi!» E lo dico mentre in realtà sto pensando che quei balzi potrebbero essere anche dovuti al freno che inizia cedere, o alle guide laterali usurate per un cortocircuito.
Lo dico e trattengo il fiato. La guardo, sorrido e trattengo il fiato.
Dopo un paio di minuti di apnea ci fermiamo. Provo con le mani e le porte si aprono quel tanto da permetterci di sgattaiolare fuori.
Siamo al pianterreno: mi riempio d’aria i polmoni e la vita torna a splendere in tutto il suo meraviglioso fulgore.
Ci presentiamo e lei mi chiede addirittura se gradisco un caffè al bar. Così, giusto per riprenderci.
Alla parola “caffè” mi ricordo di essere un ansioso.
Molto meglio un orzo, altrimenti sai il casino che combino?

da “VERSETTI IRONICI CONTRO L’ANSIA” di Fabio Santa Maria Incipit23 Edizioni

Ansia da ascensore, da aeroplano, da esame! Ansia di parlare in pubblico e di morire all’improvviso! Ansia senza motivo e ansia a 180 battiti al minuto! Ansia da ritardo, da parcheggio, da esame e da colloquio di lavoro. Ansia d’amore e ansia di aver lasciato aperto il gas…
Finalmente tutte le ansie del mondo unite in cinquanta micro racconti, un libro per distrarre l’ansia, per soffocarla di risate, per farla precipitare dalle scale. Con il contributo di ANA LISTA, la consulenza di MANCA LARIA e la post fazione di MORI REMO.
Disponibile subito (prima che sia troppo tardi!) nelle più ansiose librerie d’Italia e naturalmente anche online! Qui il book trailer

9 giugno 2022

GATTI E LIBERTÁ

Filed under: gatti — Tag:, , , , , , — Fabio Santa Maria @ 3:01 PM

di Troglodita Tribe

Non è un mistero che la liberazione sia un percorso lungo e difficile, che ci sia da combattere con muri e gabbie di ogni genere, ma se c’è un fatto evidente, inossidabile, senza il quale questo percorso non è neppure iniziato, è proprio la facoltà di riuscire ad immaginare questa liberazione, la facoltà di reputarla possibile, realistica, attuabile.
Chi considera la libertà una mera utopia, chi pensa all’anarchia come ad un fatto puramente teorico che non trova certo posto nella propria vita quotidiana, che non è neppure ipotizzabile in questo contesto storico, ha perso, ovviamente, ogni possibilità di liberarsi.

Franco, un anarchico che conoscemmo in un paesino nei pressi di Seborga (IM), una volta ci disse: “Io all’anarchia ci credo davvero. Sono davvero convinto che la possiamo realizzare, ma non in un futuro lontano, la possiamo realizzare nel giro di poco tempo. Se non ci credessi non sarei anarchico.”

Ed è vero, verissimo. Come si fa a credere in qualcosa che si ritiene irrealizzabile?! Nel momento in cui lo ritieni irrealizzabile, illusorio, impossibile, hai già smesso di crederci.
L’immaginario umano, però, in moltissimi casi, è talmente domato e addomesticato da non riuscire più neppure ad immaginare realizzabile non solo la propria liberazione personale (così connessa a quella collettiva), ma il concetto stesso di libertà.

Leggo da un blog di “esperti” di gatti e resto allibito: “La libertà del gatto è un concetto romantico ed attraente, ma, in pratica, è il sistema più sicuro per abbreviarne l’esistenza, sempre che  non sia possibile liberarlo in un luogo assolutamente sicuro, come un cortile o un giardino chiuso da ogni parte  da muri sufficientemente alti , infatti, le reti sono scavalcate facilmente e basta un albero a “portata di zampa” e l’evasione è certa.”

Evidentemente neppure la caparbia insistenza del gatto nel ricercare la sua libertà è sufficiente per far comprendere i suoi desideri, le sue intenzioni, la sua volontà. Togliere la libertà a qualcuno “per il suo bene” significa considerarlo, a tutti gli effetti, un incapace, un essere che non è neppure in grado di vivere a suo modo. Succede nei manicomi, succede con ogni forma di proibizionismo, succede quando si pretende che i nomadi non possano spostarsi come meglio desiderano, succede in tutte le forme di “educazione” repressiva e violenta. Succede perché chi è differente, chi si scosta dalle direttive indicate dal dominio, chi agisce e dimostra la propria libertà deve essere ricondotto sulla retta via, ad ogni costo.

Il gatto nero è un simbolo utilizzato dai movimenti anarchici a causa della sua indipendenza, della sua irriducibile propensione alla libertà.

Il gatto nero anarchico si chiama, genericamente, Wild Cat (gatto selvatico). È un gatto nero (molti lo intendono come una gatta nera, però) in posizione di allerta e di combattimento, con la schiena inarcata; una raffigurazione ripresa in maniera esatta dall’atteggiamento di ogni gatto che si predispone alla lotta. Tra gli anarchici è però noto come Sab Cat o Sabo Tabby: questo il nome che gli (le) diedero gli Industrial Workers of the World. “Gatto Sabotatore”, o “Sabomicio”. Non poteva essere altro che nero (nera): fin da circa il 1880 il colore nero è associato all’anarchismo, e in particolare all’anarcosindacalismo. Una caratteristica che si è mantenuta nella denominazione inglese per lo “sciopero selvaggio”, vale a dire quello intrapreso spontaneamente dai lavoratori senza nessuna “concertazione” con i sindacati ufficiali e senza preavviso: Wildcat strike. In inglese, le azioni di sciopero diretto, non mediato e a oltranza sono lo sciopero del gatto selvatico -naturalmente nero.

Rinchiudere un gatto in una gabbia, però, è un ulteriore simbolo, è la negazione della libertà, è la repressone dell’indole libertaria che incarna.

Un gatto ha bisogno di un territorio di diversi chilometri che esplora quotidianamente, marcando il terreno, appostandosi di vedetta in luoghi strategici, combattendo per difenderlo. La vita di un gatto si realizza esclusivamente in condizioni di libertà. In una gabbia o in un appartamento potrà sopravvivere, certo, proprio come un umano potrà sopravvivere dentro una cella, o costretto ad un lavoro stressante che odia, che lo reprime, che lo porta inevitabilmente alla nevrosi e alla malattia.

Se non si riesce più a concepire la libertà per le specie non umane, che sono libere per antonomasia, che fondano la loro intera esistenza sulla libertà, se vogliamo rinchiudere anche loro, come possiamo sperare di liberare noi stessi?
Del resto si tratta dell’ennesima conferma di quanto la liberazione umana sia legata indissolubilmente alla liberazione animale. Chi non è libero, chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle, vuole rinchiudere tutti gli altri. Rinchiuso in gabbie mentali, rinchiuderà gli animali in gabbie di ferro.

Chi non riesce neppure ad immaginare un mondo di libertà, lotterà inevitabilmente per un mondo fatto di muri e di gabbie. Un mondo a sua immagine e somiglianza. Un mondo che gli dia l’illusione di sentirsi al sicuro e al riparo dai rischi, dai pericoli, dagli incidenti, dalle malattie, dalla crisi. Un mondo dove di libertà si parla solo sui libri e sulle riviste.

Tutto questo ci mostra quanto il dominio di una razza, di un genere, di un esercito o di una specie sulle altre non sia soltanto causata dal des

iderio di soddisfare i propri interessi a scapito di quelli altrui, ma anche dalla paura e dalla rassegnazione. Chi viene dominato quotidianamente (al lavoro, in famiglia, all’università…) è una vittima che non potrà fare a meno di replicare e favorire la catena del dominio.

I contadini, sfruttati e angariati dai proprietari terrieri, sfruttavano donne e animali. I militari di leva, sfruttati e dominati dai superiori, tendevano a sfruttare e dominare i nuovi arrivati creando nuove gerarchie.

La catena del dominio tende inesorabilmente a replicarsi. Chi tenta di spezzarne una maglia, quando non viene soppresso, deve essere per forza relegato nel mito di una teoria irrealizzabile.

Chi è stato domato non riesce più a sopportare la vista della libertà. La libertà vissuta, per chi è rassegnato, risulta una luce fastidiosa e abbagliante.

La vista di un gatto libero infastidisce alcuni “protezionisti” proprio come tanti anni fa la vista di un giovane hippy infastidiva la benpensante borghesia. La vista di un gatto libero, senza futuro, senza alcuna sicurezza, scatena quel finto amore che spinge a rinchiuderlo per prolungargli la vita.

Ma un gatto libero non è un’anima in pena alla ricerca di un padrone che lo accudisca. In realtà il gatto non è mai randagio, ma sceglie una zona che reputa adatta per la sua sopravvivenza e, nonostante i lunghi vagabondaggi, torna sempre nella sua zona. Quando il territorio è particolarmente promettente si possono formare, in maniera del tutto spontanea, delle colonie feline: vere e proprie comunità di gatti liberi. Ed è proprio in questo contesto che è possibile, casomai, aiutare e curare i gatti senza imprigionarli.

Ma come si fa per i gatti che vivono da sempre in un appartamento di città? Come è possibile liberarli se si abita al settimo piano di un palazzo nel pieno centro di una metropoli?

Di certo non è un’impresa semplice.

Tanto per cominciare occorrerebbe realizzare che questo gatto ha comunque un gran bisogno di riacquistare la sua libertà, di assaporarla, di viverla, proprio come chi ha scelto la sua compagnia.

Ed è proprio osservando il gatto che questa persona potrebbe acquisire la reale consapevolezza di quanto la libertà sia indispensabile per una vita degna di questo nome. L’attenta e paziente osservazione del gatto, in effetti, ci pone nella mirabile situazione di allargare le nostre percezioni, di entrare finalmente in sintonia con il gatto nero dell’anarchia che mai si rassegna e mai smette di lottare per la sua libertà.

Entrare in sintonia con questo spirito felino e ribelle mostrerà con chiarezza un nuovo atteggiamento di apertura convincendoci definitivamente che chi condivide una gabbia con un altro essere, invece di trattenere il suo compagno, dovrebbe architettare insieme a lui un piano di fuga.

E allora, questa persona, potrebbe cominciare a portare se stesso e il gatto in situazioni di libertà, che siano per entrambi possibili e vivibili. Dovrebbe industriarsi per guarire e lasciare andare la paura che lo sta trattenendo, per abbandonare la sua stessa cella che rende impossibile la libertà al gatto, e trovare una sistemazione in cui un umano e un animale possano convivere senza costringersi, senza rinchiudersi, senza rinunciare a tutte le potenzialità dei loro corpi e delle loro menti. Certo, la mancanza di denaro e la mancanza di quell’illusoria sicurezza che imprigiona quotidianamente la maggior parte di noi umani, potrebbero essere degli ostacoli non indifferenti, ma superare questi subdoli condizionamenti è oramai il minimo che possiamo fare, se ancora abbiamo il coraggio e l’ardire di pronunciare la parola libertà.

Per farla breve, occorrerebbe essere così pazzi da cambiare casa e vita per il proprio gatto (che ovviamente non è di nessuno se non di se stesso). Perché il significato di voler bene a un gatto che vive rinchiuso può essere identificato solo nell’aiutarlo a ritrovare il senso della sua vita, che è la libertà.

E poi, riuscendo in questa mirabile impresa, avremo dato un senso anche alla nostra di vita. Avremo aiutato davvero un individuo che amiamo: il gatto, ritrovando insieme a lui la nostra libertà.

28 Maggio 2022

L’ORECCHIA SULLA PAGINA

Ho sentito di lettori che, oltre ad incriminare volentieri gli autori delle orecchie, andavano orgogliosi di aprire il tomo senza allargarlo più di tanto in modo da mantenere quella parvenza di nuovo, quella freschezza di stampa, quell’illibata purezza da libro appena colto in libreria o, ancor meglio, appena uscito di tipografia.
Gente che il libro è mio e guai a chi me lo tocca, gente che i libri non li presta più, per nessun motivo al mondo, perché quella volta non glielo restituirono e lui volò libero di mano in mano, senza mai più fare ritorno sulla teca polverosa dove l’avevan confinato.

Ho sentito di lettori che, sul treno, di fronte all’autore di un’orecchia, provavano malessere e preferivano cambiar di posto. E quasi, in tutto il vagone, si poteva percepire quel loro afflato di disprezzo, quel loro sentirsi superiori, nobili di rango e di cuore di fronte alla brutalità del mondo che torturava la bellezza e la poesia, che non poteva capirla e non sapeva parteciparvi, perché faceva l’orecchia al libro.

E li osservavo spesso questi lettori.
Passò un periodo in cui ne venni quasi contagiato. Mi attraeva fatalmente quel loro altezzoso amore, quella loro delicatezza altolocata, quel loro atteggiarsi a poeti del libro, gli unici che potevan percepirne l’energia sottile.

Perché anch’io amavo i libri. Tutti i libri. Davvero, per il solo fatto che fossero libri mi tiravano come calamite. Solo che l’infatuazione per i lettori che facevano la guerra all’orecchia sulla pagina durò poco. Durò finché non mi chiesi seriamente che cosa fosse un libro. Arrivai alla conclusione che l’oggetto sul quale si facevano o non si facevano le orecchie, era solo una manifestazione del libro, di quel determinato libro che viveva in migliaia di altri luoghi: librerie, case, biblioteche, zaini, borse, scrivanie, centri commerciali, lavanderie a gettone, barbieri, sale d’aspetto.

Amare “1984” di Orwell, allora, non significava rispettare l’integrità di quella determinata copia finita accidentalmente nelle mie mani, di quell’edizione particolare che mi avevano regalato e che conservavo da anni. Limitarsi a questo amore, a questo rispetto, sarebbe stato come confondere il dito che indica la luna con la luna stessa.
Amare “1984” di Orwell, allora, doveva esser cosa assai più elaborata. Occorreva far vivere quel mondo – perché ogni libro è un mondo – il più possibile, farlo risuonare in quella dimensione che ci ostiniamo a chiamare realtà nei modi più diversi.

Occorreva aprirlo milioni di volte, farlo girare, prestarlo, regalarlo, comprarlo, leggerlo ad alta e bassa voce, velocemente saltando anche qualche riga per la fretta di arrivare fino in fondo, oppure con la massima lentezza respirando con calma ad ogni virgola. Occorreva lasciargli addosso i segni del passaggio dei lettori, che per un libro sono i segni del tempo, i segni della vita che si vive, le prove che non si è stati sempre chiusi in un cassetto, o schiacciati in libreria. Perché la vita, i segni, li lascia addosso a tutti, e la bellezza, quella vera, la puoi leggere proprio scorrendo questi segni che raccontano come te la sei giocata.
E allora compresi che anche le orecchie, anche loro entravano nella magnifica danza del libro. Perché un libro rispettato in quella vecchia maniera compunta sarebbe stato, inevitabilmente, un libro poco usato, poco vissuto, poco letto, sempre più lontano dalla nostra dimensione.

Quando m’imbattevo in un libro usato, allora, raddrizzavo qualche orecchia, sfilavo qualche vecchio biglietto, gustavo noterelle a matita, sopportavo dediche melense, e mi sorbivo pure file tremolanti di sottolineature senza batter ciglio.
Avevo tra le mani un volume che aveva viaggiato, ed era meraviglioso immaginare come quella storia, quel mondo che conteneva fosse stato condiviso da tante persone. Avevo un libro carico di emozioni, un oggetto con un’anima e con un cuore che sentivo palpitare,

Tratto da “Sempre e solo libri usati” di Troglodita Tribe autoproduzione realizzata manualmente con scarti cartacei

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