La comunicazione fa passi da gigante.
Come una scienza sciolta nel magma tecno-mediatico, come uno scioglilingua da recitare a mò di mantra modaiolo, la comunicazione s’impone sin dai primi passi scolastici. Alzi la mano chi non parlicchia l’inglese, chi non s’arrabatta con almeno due o tre lingue diverse dalla madre. Tante figlie e figliastre indispensabili da portarsi sulle spalle per respirare, per sapere, per farsi sentire con quel flebile afflato infervorato e laureato con cui partecipiamo al mondo, con cui recitiamo la parte assegnata.
Bello, certo!
Ma pare che nel frattempo, proporzionalmente e inesorabilmente, un’altra lingua tenda a scomparire lasciando un vuoto di glaciale e impeccabile superficialità nella comunicazione sempre più veloce dei nostri giorni. E’ la lingua della solidarietà. Un modo di parlare e di percepire che davamo per scontato. Una grammatica con poche semplici regole che consentivano di esprimere concetti comuni, prassi elementari, riferimenti scontati a cui ci appoggiavamo senza paura per disegnare il paesaggio della nostra esistenza.
Mutuo aiuto, condivisione, opposizione ad ogni forma di ingiustizia anche quando non ci riguarda direttamente. Quel senso di esser parte di un popolo, di un pianeta, quel senso di fastidio e di oppressione situato proprio in mezzo al petto di fronte alle prepotenze, alle sopraffazioni, alle ricchezze sproporzionate e platealmente stonate. Una lingua, questa, parlata sempre meno, con un vigore che va scemando passo dopo passo, che si sussurra ormai sull’orlo dell’eccezione, o giusto con la tipica accezione religiosa, caritatevole, buonista, eroica. Sempre più lontana, quindi, da quel sentire comune che diviene il passo con cui camminiamo nel mondo, con cui costruiamo nuovi mondi.
Una lingua, questa, che appare sempre meno umana, sempre meno al passo con i tempi, sempre più distanziata dalle nuove esigenze di sicurezza, ricchezza, lavoro che chiedono, al contrario, di respingere, di costruire muri, di distinguere.
Una lingua, la cui assenza, porta al disfacimento collettivo e ad una povertà interiore senza precedenti. Ci porta un mondo ricco che ha bisogno di leggi contro lo spreco alimentare, che muore di benessere e spazzatura, ma che è terrorizzato dal mondo povero che chiede quella solidarietà e quella condivisione che, da sempre, sono l’indispensabile preludio alla ricchezza collettiva.
Una lingua, quella della solidarietà, che, sotto sotto, conosciamo tutti. Che non si studia con il vocabolario, ma che potrebbe essere eletta a lingua universale, un nuovo spazioso esperanto che sa di speranza. Una lingua che potremmo recuperare in modo inedito e sorprendente partendo dal principio di tutte le ingiustizie, partendo dal basso, ma da così in basso da risultare spiazzante anche da tutte le altre lingue con tutti i loro significati allineati.
Dagli animali ovviamente.
Da una solidarietà così potente, l’unica realistica, da abbattere ogni muro, anche quello di specie.
Una lingua, in principio umana, che si affaccia da una strana finestra, che prova a perdersi e a perdere quelle sue gelide sembianze onnipotenti da comunicazione di servizio.
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