I tutorial sostengono all’unanimità che, per promuovere un libro in rete, in ogni modo, sempre e comunque, occora scrivere contenuti altri cercando di attirare l’attenzione, cercando di interessare e sedurre, cercando di raccontare storie fino a creare una sorta di comunità di persone che ti seguono, che si interessano a ciò che scrivi. Solo dopo, ogni tanto e casualmente, si dovrà far notare che questo benedetto libro lo abbiamo pubblicato e che vorremmo anche venderlo. Ma bisogna insistere a scrivere così, in modo traslato, quasi casuale, quasi che t’importasse poco, quasi che il motivo di tutto questo scrivere non avesse nulla a che vedere con l’imperativo della vendita.
I tutorial, inoltre, sostengono che questo lavoro debba iniziare molto prima della conclusione del libro, perché si tratta di un lavoro duro e lungo sul quale non si può improvvisare e pretendere risultati nel breve periodo.
I tutorial, in pratica, sostengono che per vendere il tuo libro occorra scriverne un altro, molti altri, da spezzettare sotto forma di post, tweet, articoli che, subdolamente, girino intorno al primo senza farsi riconoscere. Un secondo (terzo, quarto…) libro ben mimetizzato dal quale escano, all’improvviso e studiati, dei richiami all’acquisto del primo libro. Una sorta di interminabile spot pubblcitario, di cantilenante e scampanante e sbandierante chiacchiericcio produttivo che deve essere simpatico, che deve saper intrattenere, che deve illudere di poter risolvere problemi. Ma, tutto sommato, un modo come un altro per mettersi in mostra e, una volta raggiunta la fosforescenza, contare sul fatto che i lettori, irresistibilmente attratti dall’esca, finiranno per comprare.
E d’altronde per quale strano motivo dovremmo scrivere questo articolo virtuale se non per aumentare la nostra popolarità e sperare che, come ovvia conseguenza, sempre più persone s’interessino al nostro modo di scrivere e si decidano finalmente ad acquistare un nostro libro cartaceo?
Sarà che questo marketing esponenziale e diffuso con noi non ha mai funzionato e riusciamo a piazzare i nostri libelli quasi esclusivamente quando vengono toccati (indipendentemente da quanto e cosa scriviamo in rete), sarà che siamo troppo proiettati sul cartaceo per riuscire a rendere sul virtuale ciò che davvero tentiamo di mettere su quella carta recuperata che fa da supporto ai nostri testi, sarà che quando il libello si fa creativo tutte le regole del marketing editoriale esplodono in un felice caos colorato, sarà tutto quello che vi pare, ma scrivere e mettere in rete questo famoso libro, questi famosi libri spezzettati in post, tweet e articoli con il solo scopo di venderne un altro è un sistema che, francamente, non ci torna. E non è soltanto perché ci fa venire in mente la triste pratica del lavorare gratis non più per un ideale, ma finalizzato alla speranza di essere sfruttati con un altro lavoro dotato di stipendio.
Il punto, invece, è soprattutto quel subdolo girare intorno, quel mellifluo sorridere educato e allineato, quel bon ton da rete che impone la disponibilità totale e suona esattamente come il vecchio bastardo comandamento del cliente che ha sempre ragione, e ancor prima che sia un cliente per di più! Perché qui ovviamente non si parla di chi pubblica da anni il proprio blog per comunicare, per informare, per raccontare, per fare politica, per fare cultura o per il piacere di farlo e poi, già che c’è, scrive anche del libro che ha appena pubblicato. Qui si ribalta tutto e, come in un qualunque stato azienda che si rispetti, la tua vera essenza, quello scrivere che era la tua vita, assume il tipico format da spot pubblicitario.
Siamo gente cresciuta nella convinzione che chi scrive debba viaggiare con mezzi di fortuna per andare esattamente dove gli pare, perché è questo scrivere. Proprio quella libertà totale che consente di impazzire sperimentando nuove strade e consente di gridarlo forte fino a farsi sentire con parole che escono dalle righe deragliando e disertando; e consente a chi ti legge di trovare ogni volta nuove ed inedite visioni. Scrivere è creazione, è un atto ribelle che ribolle fino a generare una spuma fantasmagorica che sballa al solo odorarla. E anche quando c’è quel gusto grezzo, disinvolto, improvvisato, autodidatta, autoprodotto, stampato in proprio, al leggerti, si sente che dall’altra parte qualcuno si sta facendo le ossa scrivendo senza sosta fino a sanguinare. Perché se davvero vuoi entare nel tuo stesso scrivere fino a scivolarci dentro, fino a scomparirci dentro, fino a starci dentro così bene da non uscirne più, sarai sempre dall’altra parte del mondo rispetto a quella famosa fosforescenza da marketing esponenziale, rispetto a quel furbetto mascherare educato e per bene il proprio spregiudicato spam a caccia di fama.
E poi ancora. Ma siamo davvero certi che seguendo diligenti le regole proposte (e indubbiamente centrate rispetto agli algoritmi che guidano i processi mentali degli utenti) riusciremo a vendere la tiratura del nostro libro? Basterebbe raffigurarsi il pullulante esercito di quelli che ci provano, di quelli che, diligenti, ci si mettono d’impegno, di quelli che postano quotidiani archittendo strategie che rimandano alla promozione di un libro che ancora devono cominciare a scrivere, di quelli che si costruiscono, giorno dopo giorno, il loro personale e affezionato pubblico. Pubblico, a sua volta e inevitabilmente, composto da persone che rispondono a quei post, a quei tweet, a quegli articoli con lo scopo di accappararsi il proprio di pubblico. Basterebbe raffigurarsi questo caleidoscopio pubblicitario di pubblici da pubblicazione per una radicale e sgommante inversione a u, per una diserzione di massa di quelle che fanno la storia della liberazione letteraria.
E allora? Dirà qualcuno… Che cosa resta? Che cosa dovrebbe fare un* scrivente di belle speranze che vive in quest’infosfera mediatica fondata inesorabilmente sul marketing? Mollare tutto forse?
Se davvero dovessimo rispondere a questa domanda non potremmo fare a meno di istigare all’autoproduzione radicale: quella con le copertine di cartone dei supermercati e i titoli scritti a mano con lo smalto per unghie scaduto, quella del testo fotocopiato e arricchito da timbri, strappi e spirali, quella con le tirature minime cucite a mano, quella che scommette sull’unicità e l’effetto travolgente del cartaceo non seriale, quella che quando la vedi è un tale pugno mediatico nell’occhio stanco e addomesticato dal virtuale che esplode e brilla di luce propria.
Ma fortunatamente, non avendo le carte in regola per rispondere visto che usiamo solo carta recuperata e riusata e regalata, ci possiamo limitare ad abbandonare il campo intonando il vecchio motto che anima da tempo le nostre produzioni: FATTI I LIBRI TUOI!