di Troglodita Tribe
Non è un mistero che la liberazione sia un percorso lungo e difficile, che ci sia da combattere con muri e gabbie di ogni genere, ma se c’è un fatto evidente, inossidabile, senza il quale questo percorso non è neppure iniziato, è proprio la facoltà di riuscire ad immaginare questa liberazione, la facoltà di reputarla possibile, realistica, attuabile.
Chi considera la libertà una mera utopia, chi pensa all’anarchia come ad un fatto puramente teorico che non trova certo posto nella propria vita quotidiana, che non è neppure ipotizzabile in questo contesto storico, ha perso, ovviamente, ogni possibilità di liberarsi.
Franco, un anarchico che conoscemmo in un paesino nei pressi di Seborga (IM), una volta ci disse: “Io all’anarchia ci credo davvero. Sono davvero convinto che la possiamo realizzare, ma non in un futuro lontano, la possiamo realizzare nel giro di poco tempo. Se non ci credessi non sarei anarchico.”
Ed è vero, verissimo. Come si fa a credere in qualcosa che si ritiene irrealizzabile?! Nel momento in cui lo ritieni irrealizzabile, illusorio, impossibile, hai già smesso di crederci.
L’immaginario umano, però, in moltissimi casi, è talmente domato e addomesticato da non riuscire più neppure ad immaginare realizzabile non solo la propria liberazione personale (così connessa a quella collettiva), ma il concetto stesso di libertà.
Leggo da un blog di “esperti” di gatti e resto allibito: “La libertà del gatto è un concetto romantico ed attraente, ma, in pratica, è il sistema più sicuro per abbreviarne l’esistenza, sempre che non sia possibile liberarlo in un luogo assolutamente sicuro, come un cortile o un giardino chiuso da ogni parte da muri sufficientemente alti , infatti, le reti sono scavalcate facilmente e basta un albero a “portata di zampa” e l’evasione è certa.”
Evidentemente neppure la caparbia insistenza del gatto nel ricercare la sua libertà è sufficiente per far comprendere i suoi desideri, le sue intenzioni, la sua volontà. Togliere la libertà a qualcuno “per il suo bene” significa considerarlo, a tutti gli effetti, un incapace, un essere che non è neppure in grado di vivere a suo modo. Succede nei manicomi, succede con ogni forma di proibizionismo, succede quando si pretende che i nomadi non possano spostarsi come meglio desiderano, succede in tutte le forme di “educazione” repressiva e violenta. Succede perché chi è differente, chi si scosta dalle direttive indicate dal dominio, chi agisce e dimostra la propria libertà deve essere ricondotto sulla retta via, ad ogni costo.
Il gatto nero è un simbolo utilizzato dai movimenti anarchici a causa della sua indipendenza, della sua irriducibile propensione alla libertà.
Il gatto nero anarchico si chiama, genericamente, Wild Cat (gatto selvatico). È un gatto nero (molti lo intendono come una gatta nera, però) in posizione di allerta e di combattimento, con la schiena inarcata; una raffigurazione ripresa in maniera esatta dall’atteggiamento di ogni gatto che si predispone alla lotta. Tra gli anarchici è però noto come Sab Cat o Sabo Tabby: questo il nome che gli (le) diedero gli Industrial Workers of the World. “Gatto Sabotatore”, o “Sabomicio”. Non poteva essere altro che nero (nera): fin da circa il 1880 il colore nero è associato all’anarchismo, e in particolare all’anarcosindacalismo. Una caratteristica che si è mantenuta nella denominazione inglese per lo “sciopero selvaggio”, vale a dire quello intrapreso spontaneamente dai lavoratori senza nessuna “concertazione” con i sindacati ufficiali e senza preavviso: Wildcat strike. In inglese, le azioni di sciopero diretto, non mediato e a oltranza sono lo sciopero del gatto selvatico -naturalmente nero.
Rinchiudere un gatto in una gabbia, però, è un ulteriore simbolo, è la negazione della libertà, è la repressone dell’indole libertaria che incarna.
Un gatto ha bisogno di un territorio di diversi chilometri che esplora quotidianamente, marcando il terreno, appostandosi di vedetta in luoghi strategici, combattendo per difenderlo. La vita di un gatto si realizza esclusivamente in condizioni di libertà. In una gabbia o in un appartamento potrà sopravvivere, certo, proprio come un umano potrà sopravvivere dentro una cella, o costretto ad un lavoro stressante che odia, che lo reprime, che lo porta inevitabilmente alla nevrosi e alla malattia.
Se non si riesce più a concepire la libertà per le specie non umane, che sono libere per antonomasia, che fondano la loro intera esistenza sulla libertà, se vogliamo rinchiudere anche loro, come possiamo sperare di liberare noi stessi?
Del resto si tratta dell’ennesima conferma di quanto la liberazione umana sia legata indissolubilmente alla liberazione animale. Chi non è libero, chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle, vuole rinchiudere tutti gli altri. Rinchiuso in gabbie mentali, rinchiuderà gli animali in gabbie di ferro.
Chi non riesce neppure ad immaginare un mondo di libertà, lotterà inevitabilmente per un mondo fatto di muri e di gabbie. Un mondo a sua immagine e somiglianza. Un mondo che gli dia l’illusione di sentirsi al sicuro e al riparo dai rischi, dai pericoli, dagli incidenti, dalle malattie, dalla crisi. Un mondo dove di libertà si parla solo sui libri e sulle riviste.
Tutto questo ci mostra quanto il dominio di una razza, di un genere, di un esercito o di una specie sulle altre non sia soltanto causata dal des
iderio di soddisfare i propri interessi a scapito di quelli altrui, ma anche dalla paura e dalla rassegnazione. Chi viene dominato quotidianamente (al lavoro, in famiglia, all’università…) è una vittima che non potrà fare a meno di replicare e favorire la catena del dominio.
I contadini, sfruttati e angariati dai proprietari terrieri, sfruttavano donne e animali. I militari di leva, sfruttati e dominati dai superiori, tendevano a sfruttare e dominare i nuovi arrivati creando nuove gerarchie.
La catena del dominio tende inesorabilmente a replicarsi. Chi tenta di spezzarne una maglia, quando non viene soppresso, deve essere per forza relegato nel mito di una teoria irrealizzabile.
Chi è stato domato non riesce più a sopportare la vista della libertà. La libertà vissuta, per chi è rassegnato, risulta una luce fastidiosa e abbagliante.
La vista di un gatto libero infastidisce alcuni “protezionisti” proprio come tanti anni fa la vista di un giovane hippy infastidiva la benpensante borghesia. La vista di un gatto libero, senza futuro, senza alcuna sicurezza, scatena quel finto amore che spinge a rinchiuderlo per prolungargli la vita.
Ma un gatto libero non è un’anima in pena alla ricerca di un padrone che lo accudisca. In realtà il gatto non è mai randagio, ma sceglie una zona che reputa adatta per la sua sopravvivenza e, nonostante i lunghi vagabondaggi, torna sempre nella sua zona. Quando il territorio è particolarmente promettente si possono formare, in maniera del tutto spontanea, delle colonie feline: vere e proprie comunità di gatti liberi. Ed è proprio in questo contesto che è possibile, casomai, aiutare e curare i gatti senza imprigionarli.
Ma come si fa per i gatti che vivono da sempre in un appartamento di città? Come è possibile liberarli se si abita al settimo piano di un palazzo nel pieno centro di una metropoli?
Di certo non è un’impresa semplice.
Tanto per cominciare occorrerebbe realizzare che questo gatto ha comunque un gran bisogno di riacquistare la sua libertà, di assaporarla, di viverla, proprio come chi ha scelto la sua compagnia.
Ed è proprio osservando il gatto che questa persona potrebbe acquisire la reale consapevolezza di quanto la libertà sia indispensabile per una vita degna di questo nome. L’attenta e paziente osservazione del gatto, in effetti, ci pone nella mirabile situazione di allargare le nostre percezioni, di entrare finalmente in sintonia con il gatto nero dell’anarchia che mai si rassegna e mai smette di lottare per la sua libertà.
Entrare in sintonia con questo spirito felino e ribelle mostrerà con chiarezza un nuovo atteggiamento di apertura convincendoci definitivamente che chi condivide una gabbia con un altro essere, invece di trattenere il suo compagno, dovrebbe architettare insieme a lui un piano di fuga.
E allora, questa persona, potrebbe cominciare a portare se stesso e il gatto in situazioni di libertà, che siano per entrambi possibili e vivibili. Dovrebbe industriarsi per guarire e lasciare andare la paura che lo sta trattenendo, per abbandonare la sua stessa cella che rende impossibile la libertà al gatto, e trovare una sistemazione in cui un umano e un animale possano convivere senza costringersi, senza rinchiudersi, senza rinunciare a tutte le potenzialità dei loro corpi e delle loro menti. Certo, la mancanza di denaro e la mancanza di quell’illusoria sicurezza che imprigiona quotidianamente la maggior parte di noi umani, potrebbero essere degli ostacoli non indifferenti, ma superare questi subdoli condizionamenti è oramai il minimo che possiamo fare, se ancora abbiamo il coraggio e l’ardire di pronunciare la parola libertà.
Per farla breve, occorrerebbe essere così pazzi da cambiare casa e vita per il proprio gatto (che ovviamente non è di nessuno se non di se stesso). Perché il significato di voler bene a un gatto che vive rinchiuso può essere identificato solo nell’aiutarlo a ritrovare il senso della sua vita, che è la libertà.
E poi, riuscendo in questa mirabile impresa, avremo dato un senso anche alla nostra di vita. Avremo aiutato davvero un individuo che amiamo: il gatto, ritrovando insieme a lui la nostra libertà.