Uno dei più intriganti ragionamenti proto antispecisti che abbia mai sentito me lo espose, mentre camminavamo lungo una strada trafficata, la donna di cui mi ero appena innamorato. A quei tempi, sarà stato il 1996 o ’97, abitavamo entrambi a Milano e, quando ci incontravamo dopo il lavoro, avevamo preso l’abitudine di camminare senza meta per delle ore percorrendo, ogni giorno, diversi itinerari, perdendoci per le vie della città, fermandoci nei parchi, nelle librerie, più raramente nei cinema e nelle birrerie. Sono passati più di venticinque anni, allora neppure sapevo che esistesse la parola antispecismo e, come ho scoperto nel corso di una vita insieme, di tanti chilometri e battaglie vissute insieme, non la conosceva neanche lei.
Quel giorno, comunque, stavamo parlando di cani, di quanto ci piacessero i cani sin da quando eravamo bambini, di cosa significasse, per noi, vivere con un cane. Amavamo entrambi le digressioni e fioccavano anche, velocissime, parole tipo anarchia, cyberpunk, femminismo, letteratura, autosufficienza, famiglie allargate, lesbismo, amore e libertà. Poi lei si fermò improvvisamente e mi confidò il suo ragionamento antispecista. Aveva già vissuto con diversi cani e mi poteva assicurare che, in tutta onestà, in quanto ad affetto, non vedeva particolari differenze con i suoi figli, provava lo stesso trasporto, lo stesso rispetto, lo stesso amore. Trattava i figli da umani e i cani da cani, avevano diverse necessità, diverse età, diversi approcci. Gli uni erano nati da lei, gli altri no, ma che importava, erano comunque i membri della sua famiglia allargata (oggi si potrebbe chiamare famiglia multispecie), del suo gruppo di affinità, del suo branco e, proprio per questo, avevano la stessa priorità, la stessa importanza.
Ricordo che rimasi senza parole. Era un ragionamento che non avevo mai sentito, immaginato, ipotizzato. Lo sentivo farsi strada nella mia mente e nel mio cuore ad una velocità impressionante. Lo soppesavo in tutta la sua schiettezza e in tutte le sue affascinanti sfumature libertarie che mi permettevano di andare oltre gli immaginari in cui ero cresciuto, oltre le teorie e i libri che avevo letto. Poco dopo ci ritrovammo nella zona di piazza Duomo ed entrammo alla Libreria delle Donne che allora era in Via Dogana e, ben conoscendo la mia passione per la fantascienza, mi regalò un libro di Ursula Le Guin dal titolo “Aliene, Amazzoni, Astonavi”.
Ciclicamente la cronaca ci riporta le agghiaccianti notizie di cani che mordono individui umani, che ne provocano mutilazioni e a volte anche la morte. I casi, per quanto rari, vengono sempre trattati con enfasi e suscitano, come è normale che sia, paura e diffidenza. Soprattutto se ad essere aggrediti sono i bambini, alimentano un immaginario che inquadra il cane, ma più in generale l’animale, come una bestia feroce e pericolosa che deve essere rinchiusa, abbattuta, tenuta lontano dalle nostre pacifiche società evolute e superiori.
Eh sì! I cani mordono. Questo è un dato di fatto. Hanno i denti e li usano anche come un’arma, soprattutto per difendersi, quando percepiscono una minaccia o un pericolo. Questo dato di fatto, che non dovrebbe sorprendere nessuno, è troppo spesso dimenticato o, perlomeno, poco valutato quando pensiamo e definiamo il cane come nostro “miglior amico”.
In realtà, abbiamo sempre cercato di selezionare i cani e manipolarli per ottenere individui fedeli, docili, utili e servizievoli. Individui belli da vedere e da toccare o, al contrario, individui feroci e minacciosi che tenessero lontani i malintenzionati dalle nostre case, ma che fossero anche in grado di sacrificare la vita pur di difendere la nostra incolumità o le nostre proprietà.
In sostanza, li abbiamo scelti anche per la loro naturale aggressività, per il fatto che usassero i denti anche per mordere.
Quando, però, in questa operazione di selezione, qualcosa va storto, ci scandalizziamo, chiediamo che si prendano provvedimenti contro i cani, magari contro qualche particolare razza che, nell’immaginario collettivo, ma quasi mai nelle statistiche e negli studi documentati, viene identificata come più feroce e mordace delle altre.
E’ un atteggiamento radicalmente specista dove l’amicizia, in realtà, c’entra poco o nulla. Manipolare i cani per fare in modo che rispondano alle nostre esigenze, per poterli meglio utilizzare e sfruttare è, infatti, una forma di dominio che caratterizza il nostro normale rapporto con loro e con tutti gli altri animali.
All’opposto, una forma essenziale di rispetto e di amicizia, dovrebbe spingerci, tanto per cominciare, a considerare i cani come individui dotati di una naturale aggressività. Individui che potrebbero usare i denti proprio come noi potremmo utilizzare le mani. Individui che, una volta sottoposti a forti cariche di stress (come ad esempio durante la prigionia, quando si è costretti in ambienti malsani e isolati, quando manca la socialità con i simili) potrebbero trasformare questa naturale aggressività in un vero e proprio attacco. Esattamente come accade a noi umani.
Questo rispettoso riconoscimento, allora, ci spingerebbe con più facilità a cercare di capire il loro linguaggio, i loro messaggi, i loro bisogni essenziali, ci spingerebbe a riconoscere il disagio che esprimono, a prendere provvedimenti per cercare di arginarlo, per smettere di provocarlo.
In realtà, i trafiletti che documentano le aggressioni da parte dei cani, raramente ne forniscono anche una dettagliata ricostruzione e tendono, più che altro, a sottolineare la ferocia del cane e il dramma della vittima umana. Ma a voler approfondire, poi, viene alla luce quasi sempre una situazione di frustrazione, di isolamento, di squilibrio da parte del cane che, nel corso della sua vita, non ha avuto la possibilità di confrontarsi, di fare esperienze, di distinguere una normale situazione da una reale minaccia per la sua incolumità. Nella maggior parte di questi casi, infatti, il cane aggredisce proprio per difendere se stesso o i suoi cuccioli, per rispondere a ciò che percepisce come un pericolo imminente. Anche se non è tale. Si scopre, allora, come il malaugurato incontro è stato carico di malintesi, come è arrivato al drammatico risultato finale dopo una lunga serie di difficoltà da parte del cane stesso che, dal canto suo, ha tentato in ogni modo di comunicare un disagio.
Ma la risposta al disagio di un cane, quasi sempre, è la reclusione in un canile dove la paura, l’isolamento, la depressione, la rabbia, immancabilmente, aumenteranno, fino a diventare un baratro senza vie d’uscita. Il cane che esprime un disagio, infatti è identificato come una scocciatura, un fastidio. Difficilmente si cerca di mettere in discussione le motivazioni che l’hanno generato, difficilmente si è disposti a prendere i provvedimenti essenziali, che necessitano di attenzione e professionalità.
Dopotutto, le nostre comunità, che consideriamo così pacifiche, evolute e liberali, ma che soprattutto consideriamo essere composte da individui umani e superiori, non sono disposte ad andare incontro ai cani, a compiere il minimo passo indispensabile, a studiare il loro linguaggio, le loro elementari caratteristiche etologiche, il loro modo di esprimersi e di comunicare. Non sono disposte ad adattare le architetture, i paesaggi, gli stili di vita tenendo conto anche della loro presenza. Così continuiamo a scegliere i nostri cosiddetti migliori amici in base al colore del pelo, alla razza, alle mode o alle caratteristiche fisiche che potrebbero tornarci utili, che potrebbero piacerci o intenerirci. Continuiamo a comprarli e a venderli come merce che stocchiamo nei canili quando smette di soddisfarci o crea qualche problema di convivenza. Veri e propri campi di concentramento dove i cani che esprimono un disagio vengono rinchiusi. Luoghi dove non è possibile neppure iniziare un percorso di recupero. Ed è qui che finiscono i cani che mordono. Senza via d’uscita.
Ma i cani, quando ci mordono, esprimono un disagio esistenziale che ci riguarda profondamente, lo fanno quando, arrivati ormai al limite della frustrazione, non hanno altra scelta. Sono la rappresentazione del baratro specista a cui li stiamo conducendo. E invece di cercare di comprendere, riparare, favorire, tendiamo a creare lo scandalo della bestia feroce, fin quasi a dimenticare che stiamo camminando insieme a loro da millenni, un privilegio che, probabilmente, non abbiamo mai meritato.
Non è un mistero che la liberazione sia un percorso lungo e difficile, che ci sia da combattere con muri e gabbie di ogni genere, ma se c’è un fatto evidente, inossidabile, senza il quale questo percorso non è neppure iniziato, è proprio la facoltà di riuscire ad immaginare questa liberazione, la facoltà di reputarla possibile, realistica, attuabile. Chi considera la libertà una mera utopia, chi pensa all’anarchia come ad un fatto puramente teorico che non trova certo posto nella propria vita quotidiana, che non è neppure ipotizzabile in questo contesto storico, ha perso, ovviamente, ogni possibilità di liberarsi.
Franco, un anarchico che conoscemmo in un paesino nei pressi di Seborga (IM), una volta ci disse: “Io all’anarchia ci credo davvero. Sono davvero convinto che la possiamo realizzare, ma non in un futuro lontano, la possiamo realizzare nel giro di poco tempo. Se non ci credessi non sarei anarchico.”
Ed è vero, verissimo. Come si fa a credere in qualcosa che si ritiene irrealizzabile?! Nel momento in cui lo ritieni irrealizzabile, illusorio, impossibile, hai già smesso di crederci. L’immaginario umano, però, in moltissimi casi, è talmente domato e addomesticato da non riuscire più neppure ad immaginare realizzabile non solo la propria liberazione personale (così connessa a quella collettiva), ma il concetto stesso di libertà.
Leggo da un blog di “esperti” di gatti e resto allibito: “La libertà del gatto è un concetto romantico ed attraente, ma, in pratica, è il sistema più sicuro per abbreviarne l’esistenza, sempre che non sia possibile liberarlo in un luogo assolutamente sicuro, come un cortile o un giardino chiuso da ogni parte da muri sufficientemente alti , infatti, le reti sono scavalcate facilmente e basta un albero a “portata di zampa” e l’evasione è certa.”
Evidentemente neppure la caparbia insistenza del gatto nel ricercare la sua libertà è sufficiente per far comprendere i suoi desideri, le sue intenzioni, la sua volontà. Togliere la libertà a qualcuno “per il suo bene” significa considerarlo, a tutti gli effetti, un incapace, un essere che non è neppure in grado di vivere a suo modo. Succede nei manicomi, succede con ogni forma di proibizionismo, succede quando si pretende che i nomadi non possano spostarsi come meglio desiderano, succede in tutte le forme di “educazione” repressiva e violenta. Succede perché chi è differente, chi si scosta dalle direttive indicate dal dominio, chi agisce e dimostra la propria libertà deve essere ricondotto sulla retta via, ad ogni costo.
Il gatto nero è un simbolo utilizzato dai movimenti anarchici a causa della sua indipendenza, della sua irriducibile propensione alla libertà.
Il gatto nero anarchico si chiama, genericamente, Wild Cat (gatto selvatico). È un gatto nero (molti lo intendono come una gatta nera, però) in posizione di allerta e di combattimento, con la schiena inarcata; una raffigurazione ripresa in maniera esatta dall’atteggiamento di ogni gatto che si predispone alla lotta. Tra gli anarchici è però noto come Sab Cat o Sabo Tabby: questo il nome che gli (le) diedero gli Industrial Workers of the World. “Gatto Sabotatore”, o “Sabomicio”. Non poteva essere altro che nero (nera): fin da circa il 1880 il colore nero è associato all’anarchismo, e in particolare all’anarcosindacalismo. Una caratteristica che si è mantenuta nella denominazione inglese per lo “sciopero selvaggio”, vale a dire quello intrapreso spontaneamente dai lavoratori senza nessuna “concertazione” con i sindacati ufficiali e senza preavviso: Wildcat strike. In inglese, le azioni di sciopero diretto, non mediato e a oltranza sono lo sciopero del gatto selvatico -naturalmente nero.
Rinchiudere un gatto in una gabbia, però, è un ulteriore simbolo, è la negazione della libertà, è la repressone dell’indole libertaria che incarna.
Un gatto ha bisogno di un territorio di diversi chilometri che esplora quotidianamente, marcando il terreno, appostandosi di vedetta in luoghi strategici, combattendo per difenderlo. La vita di un gatto si realizza esclusivamente in condizioni di libertà. In una gabbia o in un appartamento potrà sopravvivere, certo, proprio come un umano potrà sopravvivere dentro una cella, o costretto ad un lavoro stressante che odia, che lo reprime, che lo porta inevitabilmente alla nevrosi e alla malattia.
Se non si riesce più a concepire la libertà per le specie non umane, che sono libere per antonomasia, che fondano la loro intera esistenza sulla libertà, se vogliamo rinchiudere anche loro, come possiamo sperare di liberare noi stessi? Del resto si tratta dell’ennesima conferma di quanto la liberazione umana sia legata indissolubilmente alla liberazione animale. Chi non è libero, chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle, vuole rinchiudere tutti gli altri. Rinchiuso in gabbie mentali, rinchiuderà gli animali in gabbie di ferro.
Chi non riesce neppure ad immaginare un mondo di libertà, lotterà inevitabilmente per un mondo fatto di muri e di gabbie. Un mondo a sua immagine e somiglianza. Un mondo che gli dia l’illusione di sentirsi al sicuro e al riparo dai rischi, dai pericoli, dagli incidenti, dalle malattie, dalla crisi. Un mondo dove di libertà si parla solo sui libri e sulle riviste.
Tutto questo ci mostra quanto il dominio di una razza, di un genere, di un esercito o di una specie sulle altre non sia soltanto causata dal des
iderio di soddisfare i propri interessi a scapito di quelli altrui, ma anche dalla paura e dalla rassegnazione. Chi viene dominato quotidianamente (al lavoro, in famiglia, all’università…) è una vittima che non potrà fare a meno di replicare e favorire la catena del dominio.
I contadini, sfruttati e angariati dai proprietari terrieri, sfruttavano donne e animali. I militari di leva, sfruttati e dominati dai superiori, tendevano a sfruttare e dominare i nuovi arrivati creando nuove gerarchie.
La catena del dominio tende inesorabilmente a replicarsi. Chi tenta di spezzarne una maglia, quando non viene soppresso, deve essere per forza relegato nel mito di una teoria irrealizzabile.
Chi è stato domato non riesce più a sopportare la vista della libertà. La libertà vissuta, per chi è rassegnato, risulta una luce fastidiosa e abbagliante.
La vista di un gatto libero infastidisce alcuni “protezionisti” proprio come tanti anni fa la vista di un giovane hippy infastidiva la benpensante borghesia. La vista di un gatto libero, senza futuro, senza alcuna sicurezza, scatena quel finto amore che spinge a rinchiuderlo per prolungargli la vita.
Ma un gatto libero non è un’anima in pena alla ricerca di un padrone che lo accudisca. In realtà il gatto non è mai randagio, ma sceglie una zona che reputa adatta per la sua sopravvivenza e, nonostante i lunghi vagabondaggi, torna sempre nella sua zona. Quando il territorio è particolarmente promettente si possono formare, in maniera del tutto spontanea, delle colonie feline: vere e proprie comunità di gatti liberi. Ed è proprio in questo contesto che è possibile, casomai, aiutare e curare i gatti senza imprigionarli.
Ma come si fa per i gatti che vivono da sempre in un appartamento di città? Come è possibile liberarli se si abita al settimo piano di un palazzo nel pieno centro di una metropoli?
Di certo non è un’impresa semplice.
Tanto per cominciare occorrerebbe realizzare che questo gatto ha comunque un gran bisogno di riacquistare la sua libertà, di assaporarla, di viverla, proprio come chi ha scelto la sua compagnia.
Ed è proprio osservando il gatto che questa persona potrebbe acquisire la reale consapevolezza di quanto la libertà sia indispensabile per una vita degna di questo nome. L’attenta e paziente osservazione del gatto, in effetti, ci pone nella mirabile situazione di allargare le nostre percezioni, di entrare finalmente in sintonia con il gatto nero dell’anarchia che mai si rassegna e mai smette di lottare per la sua libertà.
Entrare in sintonia con questo spirito felino e ribelle mostrerà con chiarezza un nuovo atteggiamento di apertura convincendoci definitivamente che chi condivide una gabbia con un altro essere, invece di trattenere il suo compagno, dovrebbe architettare insieme a lui un piano di fuga.
E allora, questa persona, potrebbe cominciare a portare se stesso e il gatto in situazioni di libertà, che siano per entrambi possibili e vivibili. Dovrebbe industriarsi per guarire e lasciare andare la paura che lo sta trattenendo, per abbandonare la sua stessa cella che rende impossibile la libertà al gatto, e trovare una sistemazione in cui un umano e un animale possano convivere senza costringersi, senza rinchiudersi, senza rinunciare a tutte le potenzialità dei loro corpi e delle loro menti. Certo, la mancanza di denaro e la mancanza di quell’illusoria sicurezza che imprigiona quotidianamente la maggior parte di noi umani, potrebbero essere degli ostacoli non indifferenti, ma superare questi subdoli condizionamenti è oramai il minimo che possiamo fare, se ancora abbiamo il coraggio e l’ardire di pronunciare la parola libertà.
Per farla breve, occorrerebbe essere così pazzi da cambiare casa e vita per il proprio gatto (che ovviamente non è di nessuno se non di se stesso). Perché il significato di voler bene a un gatto che vive rinchiuso può essere identificato solo nell’aiutarlo a ritrovare il senso della sua vita, che è la libertà.
E poi, riuscendo in questa mirabile impresa, avremo dato un senso anche alla nostra di vita. Avremo aiutato davvero un individuo che amiamo: il gatto, ritrovando insieme a lui la nostra libertà.
L’autore di questo interessante monumento decisamente non convenzionale è un ex professore della Scuola d’Arte di Braunschweig, una delle personalità di spicco della scena artistica in Bassa Sassonia. La sua stele, una sorta di spirale gattesca, è un omaggio a tutti i gatti di strada e, non a caso, è stata posta in questa via : Kattreppeln, dove, a quanto si racconta, un tempo i gatti avevano la possibilità di bighellonare senza essere infastiditi da nessuno. I gatti, storicamente, sia in campo artistico che in campo religioso, ma anche in campo letterario e sociale, sono stati considerati magici, sensuali, affascinanti, ma anche demoniaci e, proprio per questa ragione, sono stati perseguitati e torturati. Oggi abitano tranquillamente le nostre case, spesso entrano ed escono indisturbati, ma altrettanto spesso vivono in strada riuscendosi ad adattare anche grazie alle gattare che li aiutano e li favoriscono rendendo possibile questo loro particolare nomadismo che colora le nostre città. Un monumento che sembra una vera e propria colonia felina, una stele che ritrae una decina di gatti liberi nelle loro movenze più classiche, che oramai sono parte del nostro immaginario, del nostro modo di vedere, concepire e comprendere i gatti: velocità, bellezza, agilità, scatto, aggressività, giocosità e mistero, fusa e quell’infilarsi ovunque, nascondersi ovunque. Sono rappresentati senza orpelli, né umanizzazioni di alcun genere, come, purtroppo, quasi sempre avviene nel cinema, nelle favole, nella letteratura che li riguardano; non rappresentano qualche virtù o qualche vizio umano, non sono simboli di nulla, se non di loro stessi. Sono gatti, e stanno tutti sulla cima di una colonna di pietra, proprio come piace a loro, a guardia di una via che potevano frequentare senza fastidi, vedette libere di una vita di strada, compagni felini di un’umanità sempre più metropolitana alla quale continuano inesorabilmente ad adattarsi con intelligenza, leggerezza e grazia. Chissà, forse non ce li meritiamo i gatti, forse non siamo mai riusciti a penetrare veramente il magico mistero che li caratterizza, a comprendere l’assurda bellezza del loro concerto di fusa. Ma il monumento è lì e, almeno un po’, riscatta la nostra umana incomprensione.
Tratto da “Musi di Pietra (Il posto degli animali nei monumenti)” autoprodotto da Troglodita Tribe
Un viaggio nel mondo dei monumenti che rappresentano gli animali e solo loro.
Sandra Aubry et Sébastien Bourg, Astérisque, 2011.
Ahhh…. La Liberazione! Le liberazioni interiori, esteriori, politiche, fonetiche, sessuali, spirituali, musicali, linguistiche….. E le Liberazioni Umane e Animali con tutti i loro derivati, annessi e connessi nei vari consessi. Queste liberazioni che son tutte la stessa liberazione.
Unica figlia dissenziente e dissennata. Antitutto per eccellenza! Sovvertitrice e sovversiva, sorprendente e intraprendente, dirompente ed esplosiva, oltre il limite del limite del limite. Perché liberazione è andare oltre. Un passaggio che cambia il paesaggio, che amplifica la percezione, che avvicina la perfezione.
Un’intersezione rapida che connette in una scommessa clandestina tutti i nostri destini, che incita a deragliare, disobbedire, disertare, cancellare, rialzarsi per ricominciare.
La liberazione presuppone la forza di deragliare dal percorso stabilito.
Abbiamo binari che ci portano ovunque. Binari per amare, binari per lavorare, binari per comunicare, binari per confrontarci, per definirci, per usarci….
E naturalmente abbiamo binari che accompagnano i testi che abbiamo in testa, che regolano l’energia regalata dalle nostre parole scritte, che ammaestrano i pensieri concessi e connessi alle righe che lanciamo nelle gabbie mentali dell’infosfera mediatica.
Prendete il maschile e il femminile e… fateli a fette!
Illusoria rappresentazione di un mondo al tramonto.
Ancora pretende il primato del “Tutti liberi” che desertifica irrimediabilmente l’emozionante molteplice delle identità, delle differenze, delle sfumature; che opprime, insulta e cancella quell’altalenante ambiguo plurale di mezzitoni e chiaroscuri: l’alchimia feconda che trasforma il piatto paesaggio in capolavoro.
Durante le prove tecniche di liberazione siamo tutt* liber*, tutt* sospes* con tanto d’occhi e bocche spalancate ad osservare l’ambiguo democratico, quasi anarchico, insinuarsi dell’asterisco tra le righe quotidiane. Ogni asterisco è una domanda senza risposta. Ogni asterisco apre a tutte le diverse e controverse potenzialità. Ogni asterisco sospende il fluire della lettura, con quella sua domanda impertinente disorienta la vecchia suddivisione del mondo… e il modello codificato si mette in coda con tutt* gli altr*, e l’uomo scende dal trono.
L’assalto frontale dell’asterisco è sempre più evidente e sfacciato, vera e propria torta in faccia alla certezza, stratagemma poetico-politico che interrompe, rompe, oppone e contrappone in un lampo, in un gesto, in un segno.
*******************************************************************
Un grazie speciale a frantic & feminoska per il loro articolo “CHI HA PAURA DELL’ASTERISCO” che felicemente ispirato questo nostro post.
Cos’è un asterisco? Una stella che luccica in fondo ad una parola, il piccolo scoppio che segue una detonazione di vocali, un’anomalia agrammaticale che punta le sue piccole dita all’omissione consapevole di tutt* coloro che non sono compres* nell’ideologico “neutro universale”, ovvero il privilegio del maschile.
In un formato insolito lanciamo nell’intricato mondo delle eco-micro-auto-produzioni editoriali anche questo Animal Liberation Thriller. Un A4 verticale con paginoni a colonna e fogli gialli. Un formato adatto a testi lunghi in cui le righe respirano comunque, anche senza interventi creativi.
Un formato non certo nuovo, lo abbiamo già utilizzato per diversi romanzi impazziti(Il Veloce romanzo comico di fantaletteratura in trentacinque tazzine, il Piano di fuga dalla città in trentotto lettere con la copertina in carta di cacca di elefante, tanto per citarne un paio). E ci torniamo volentieri. Anche dopo aver pubblicato in stampa digitale e in ebook, questi libelli di lungo testo-lungo formato, questa narrativa eco-editoriale autoprodotta su cartaccia, ci torna tra le dita molto volentieri, rimane la soluzione migliore, più affascinate e versatile, più attiva e innovativa.
La copertina ce la siamo giocata con un variegato al cioccolato, un informale manuale di gesti pasticciati su cartoncino recuperato da una cartiera, i soliti avanzi di quei chilometrici e altissimi rotoloni che non possono essere usati fino in fondo perché le macchine superveloci devono frenare con un certo anticipo e poi, si sa, l’avanzo si butta. Il bel gattone, intorno a cui ruotano gli eventi di questo ALT (Animal Liberation Thriller) l’abbiamo stampato a getto d’inchiostro sul retro di volantini gialli scaduti, e poi ritagliato al millimetro con le solite forbicine compagne e amiche di mille collage. Stessa tecnica per il titolo! Avevamo anche un bel testino per la quarta, ma abbiamo soprasseduto; in un certo senso appesantiva e smorzava l’effetto suspence del gattone! Tanto qualche info sulla trama la trovate comunque, qui, tra l’Eco-Editoria Bestiale.
Forse, in questo ALT, non troverete l’esplosione sperimentale tipica dei nostri testi brevi che schizzano dalle pagine come tanti piccoli flash di una ribollente microtiratura ribelle, certo, qui parliamo di un thriller, di una storia che inizia e finisce rispettando la coerenza di una narrazione. Anzi, per meglio rispettarla anche nel suo cinico realismo, abbiamo approfittato dell’aiuto di un esperto, un medico psichiatra che ci ha spiegato quei dettagli essenziali sulla vivisezione che ci sarebbero sfuggiti. Ma qui, ancora, non ringraziamo nessuno, lo facciamo direttamente sulla carta gialla del thriller.
Abbiamo attinto da diverse fonti per costruire questa fettina di mondo inventato. Ci abbiamo messo del bel tempo per lasciar scorrere sulla pagina quella catena di pensieri, di dialoghi, di reazioni e associazioni sull’evasione, sulla liberazione, sull’ingiustizia dell’oppressione animale, per riuscire, soprattutto, a mostrare che succede nella testa di un attivista, di una persona che non ci sta, che insiste e lotta, di una persona che cambia all’improvviso mentre il grattacielo specista gli crolla addosso inesorabile. Qualcuno lo definirà un romanzo troppo di parte, ma che altro è la narrativa se non il riversare sulla pagina il mondo che sei, che percepisci?
Abbiamo attinto anche al ricordo di persone care e scomparse che sono diventate personaggi tornando a vivere in questa dimensione letteraria, che ci hanno aiutato soprattutto quando era faticoso dover fare i conti con la realtà.
Di che parla questo romanzo? Beh, va da sé! Vivisezione, Liberazione Animale, Resistenza Animale, Antipsichiatria… gli ingredienti sono tanti, c’è anche la birra, la musica, una rat-bike autocostruita, i monaci combattenti, strani pistoleri, un investigatore in felpa verde con scritta “meet is murder”, la solita valigetta nera piena di soldi… e poi ci sono i buoni e i cattivi che nuotano nei ruoli della catena del dominio, c’è una strenua lotta per spezzarla, per salvarci e liberarci, per cambiare e trasformare.
C’è anche del realismo in questa storia inventata, quel realismo che un po’ scoraggia, che mostra l’immensa disparità delle forze in campo, ma c’è anche della speranza, proprio quel soffio libertario che spinge le azioni più difficili, quelle che sembrano impossibili…e allora, quando lo percepisci, non puoi non lanciarti, insistere, provarci. E a tirarti indietro non ci riesci più.