La totemina metropolitana s’era piazzata proprio all’incrocio tra due grosse arterie particolarmente trafficate, proprio in mezzo ad una circonvoluzione di circonvallazioni con contorno di complessi geroglifici di rotaie che complicavano la vita anche ai sistemi più avanzati di scambi automatizzati.
Mandava messaggi mirabolanti agli automobilisti incazzati trasmettendo strane ondate di letteratura tranviaria che dardeggiavano senza paura anche i più incalliti realisti incazzati strombazzanti e perforanti i timpani del circostante inquinato e mefitico.
Si chiamava Salamanca Salti Sempreverdi ed era stata ingaggiata dall’alto dei Regni Immaginari, là dove il potere della parola scritta in libertà spodestava l’abulia contraffatta e strafatta del grigiore metropolitano e del noioso scriverebbene nostrano.
Il suo gioco era semplicissimo.
Doveva solo puntare gli occhioni giallo-fosforescenti contro un qualsiasi autista che correva al lavoro senza speranza di salvezza, e, subito dopo, questo veniva preso da piacevoli attacchi di fantasticaggini che gli piovevano a gocce sul parabrezza dell’automobile. All’inizio non se ne accorgeva neanche, assuefatto ad ogni ordine di stupore pubblicitario pensava trattarsi della solita pioggerellina caotica che s’infiltra nell’infosfera mediatica al solo scopo di fotterti e fonderti ai modelli imperanti e commercialmente corretti.
Il fortunato di turno, quindi, fra l’assonnato e l’annoiato, azionava il tergicristallo creando un amalgama indistinto di visioni multicolori in cui riconosceva i suoi stessi desideri proiettati voracemente alla velocità della luce. Si trattava proprio di un attimo, eppure la visione era perfetta, garantita in technicolor a trenta milioni di colori per ogni miliardesimo di millimetro quadrato. Ma quelle erano visioni autentiche, vere psichedelie con luccicanze da dimensioni ultragalattiche, fantasismi funanbolici che rasentavano il fanatismo fantastico , altro che la solita minestra pubblicitaria che penetrava imperterrita come pulviscolo puzzolente su ogni punta di speranza, quella era roba farcita nel per-sempre di un adesso straordinario che si poteva godere alla grande anche su un mezzo ordinario urbano.
A quel punto, pure il più stressato dei seriosi in carriera, pure la più rassegnata al grigiore contraffatto di fatti fetenti che fallivano feroci, non poteva fare a meno di riconoscere che una manciatina di autentico splendore libertario gli stava piovendo fresca fresca dal cielo. Non poteva fare a meno, quindi, di parcheggiare l’automobile e attaccarsi al primo tram che sopraggiungeva sferragliante e simpatico. Non poteva fare a meno, a quel punto, di seguire un caotico circuito di coincidenze demenzialmente corrette, di idee devianti dal comune senso della percezione regolare e irregimentata, di visioni in mondovisione interconnesse all’antenna cosmica di un milione di altri mondi in piazza. Tutto l’insieme, che sfolgorava repentino ad ogni fermata, permetteva di assaporare una città completamente diversa.
Molti di questi personaggi, che toccati dall’allegrissima totemina metropolitana divenivano un po’ tocchi da splendidi e vivaci punti di vista, allora, si mettevano a scrivere abbandonando le loro parole sul tram in modo che chiunque potesse coglierle come fiori temerari che spaccavano l’asfalto sorridenti.
Salamanca Salti Sempreverdi si divertiva un sacco. Si godeva lo spettacolo post-spot-tacolare spaparanzata nel suo pop hip-hop di colori sprayati e di parole sputate a colori. Con il suo turbante piumato pareva una reginetta settebellezze uscita dall’oasi di un deserto caldo e catarifrangente di miraggi mirabolanti e meravigliosamente sinceri. E quel gioco, poi, la faceva sentire bene. Cambiare il distinto destino di omaccioni incravattati e di donne infelicemente compunte che correvano ogni giorno più spente, farlo con la semplice proiezione dei loro stessi desideri, era come lanciare torte in faccia ai pasticceri, meglio di così!
E poi il circuito tranviario si riempiva di nuovi visionari, di originali sognatrici, di colorati tipacci che infarcivano il circostante di cataclismi cantati come cartoline illustrate nel magma postale. E tutto grazie a quella metamorfosi che si andava metafisicamente e psicogeograficamente diffondendo e fondendo nel paesaggio urbano.
Nuove letterature letteralmente e letterariamente lente levitavano come torte farcite di orizzonti infiniti, decrescevano bislacche come idee contorte ma felicemente attuabili nell’attualità urbana.
E il bello era che nessuno pretendeva di diventare famoso con tutta quella magnificenza abbondante di parole libere e selvagge che surfavano l’onda anomala tranviaria. Quella letteratura era di tutti e di tutte. Viaggiava e vagava generosa e abbondante alla facciaccia lessa e babbiona di una crisi che crepitava rincretinendo ogni speranza di condivisione, ogni idea di mutuo appoggio, ogni sintomo di complicità in direzione delle nuove felicità orizzontali.
Diventare famosi era un vecchio concetto arenato nel nulla. E proprio quel nulla prendeva le forme più libere e belle di tutti i tempi