Se c’è una cosa che non sopporto è presentare i miei libri.
Presentarli in modo canonico, parlandone in pubblico intendo, alzando la voce da tenore pur di far sapere al mondo che li ho scritti. Mi manca il fiato, mi viene l’ansia solo a pensarci. E poi se avevo la stoffa per esibirmi facevo il cantante, l’attore, al limite il politico.
E tu non presentarli!
Infatti per tanti anni ho pubblicato libri impresentabili. Fotocopiavamo, con la mia compagna, una micro tiratura per ogni testo, realizzavamo le copertine con i cartoni dei supermercati, stampavamo i titoli sui retro dei volantini colorati, per poi ritagliarli e incollarli. Oppure, se erano titoli di una parola o due, li scrivevamo direttamente con lo smalto per unghie o con i timbri.
Li tagliavamo in diversi formati e li cucivamo a mano questi manufatti, uno a uno.
Sì, lo so, non erano libri. E infatti li chiamavamo libelli, libroidi mutanti, scartafacci.
Costruimmo pure dei “libri” da taschino dotati di copertina ricavata da trancetti di cartoline illustrate. Utilizzammo di tutto, pure le vecchie radiografie. Per un testo surreale dal titolo “L’arte come merda la merda come arte” scegliemmo i cartoncini per raccogliere la cacca dei cani. Con una vecchia stampante ad aghi riuscii a scrivere su un rotolo di etichette dei pelati, ma anche sulla carta a doppio strato dei sacchetti del cemento. Riuscimmo ad usare un campionario di tappezzeria anni settanta per confezionare patenti per scrittori e scrittrici, patenti con lo spazio per la foto, da compilare anche con l’incipit del primo libro realizzato, patenti iene di provocazioni da sfoggiare al posto dei documenti veri.
Piacevano un sacco.
E noi ci divertivamo un mondo.
Tutto quello che raccoglievamo: dalle cartellette da ufficio ai scartati da un calzaturificio che utilizzammo per un libello sulle gioie dell’andare a piedi, dai pacchetti di fiammiferi (per la collana Al Fuoco!) ai tranci dei vecchi vinili, poteva essere trasformato in libro, pardon, libroide. Poteva, come minimo, diventare una copertina. Ne realizzammo diverse con i biglietti del tram di Milano, erano così micro e così pop che ci costrinsero a produrre un’intera collana: ATM (Atipici Testi Misti).
Con il nostro notevole assortimento di prodotti editoriali riciclati e riusati, diventammo falsi editori: ci infiltravamo all’interno di fiere e festival di provincia e diversi giornalisti, blogger e organizzatrici di mostre ed eventi ci scambiavano per editori veri, ci intervistavano, ci invitavano.
Sbarcavamo il lunario senza difficoltà.
Erano libelli drasticamente impresentabili, nel senso che non avrebbe avuto senso presentarli e raccontarli, facevi molto prima a consumarli sul momento, materiale effimero che si scioglieva come neve al sole. Ma nello stesso tempo belli da possedere, sfiziosi da collezionare, accattivanti da regalare. Una variante scintillante al concetto di libro, ma non un libro d’artista, piuttosto un libro troglodita. C’erano assaggi di saggi sulla sfiga che non esiste e sull’ozio estremo che induce a scrivere meno, molto meno, c’era un’istigazione realizzata con gli sconti dei supermercati intitolata I gruppi di non acquisto, c’era l’elogio delle delle briciole e pure l’anti arte femminista di Mostriamo il mestruo, macchiato con vero sangue mestruale.
Poi il terremoto.
Quasi un castigo divino.
Un terremoto vero che ci costrinse a cessare l’attività, ad abbandonare la nostra casa in pietra al limite del bosco, quella casa dove lavoravamo, dove avevamo accumulato tonnellate di scarti, ritagli, confezioni, cartine e copertine, quei boschi dove avevamo raccolto anche i nidi caduti dagli alberi per arricchire uno dei nostri best seller, un poetico libro in scatola che spuntava, appunto, dal nido.
Ci trasferimmo in Sicilia, terra meravigliosa, patria di illustri letterati e premi Nobel. Terra dove le case e la vita costano molto meno, terra di sole e mare. Terra, però, con pochissimi lettori, con poche librerie e quasi nessun festival dell’editoria.
In quel contesto, i nostri libri clandestini, fatti con gli scarti, auto costruiti, rilegati con cuciture estemporanee e piccole acrobazie sartoriali, dipinti, disegnati, macchiati, bruciacchiati, con inserti di carta fatta a mano, di collage, con tocchi di materiale di risulta, non trovavano terreno per fiorire.
Alla fine fummo costretti a scrivere libri veri per editori veri. Per sfinimento, per necessità.
Certo che li amo i libri, sono un lettore estremo, tanto che uno dei nostri primi libroidi mutanti s’intitola proprio così: I lettori estremi, E sfondavamo una porta aperta, visto che i nostri clienti erano, appunto, lettori estremi, scrittrici compulsive, grafiche, graffittari e pubblicitarie, gente con uno spiccato senso dell’umorismo editoriale.
Sì lo so, sono molto più nobili i libri veri, solo che ci avevo preso gusto con quei loro fratellini scapestrati, con quelle loro sorelline perdigiorno, vere streghette disertore, insubordinate, irriducibili e, soprattutto, impresentabili.
26 giugno 2022
IL BLUES DEL FALSO EDITORE ANSIOSO
11 giugno 2022
TRA IL PRIMO E IL SECONDO PIANO L’ASCENSORE SI FERMA DI BOTTO…
La buona notizia è che sono riuscito a incrociare la ragazza del terzo piano.
Siamo entrati insieme in ascensore e abbiamo scambiato qualche parola. Era più di un mese che ci sorridevamo da lontano e adesso finalmente è qui.
Solo che c’è anche la cattiva notizia…
Tra il primo e il secondo piano l’ascensore si ferma di botto.
Schiaccio di nuovo il terzo e niente. Schiaccio il piano terra e neanche a parlarne.
A molti potrebbe sembrare l’occasione d’oro, quasi da film. Ma se in ascensore c’è un ansioso, la commedia sentimentale si trasforma puntualmente in dramma. In alcuni casi anche in horror.
Il fatto allucinante, poi, è che non posso certo esternare quello che penso come se niente fosse. Non posso uscirmene bello bello col classico: “Ormai è finita, moriremo soffocati!”.
Oltre all’angoscia claustrofobica d’esser chiuso in questa maledetta trappola, devo pure fingere che si tratti di un normalissimo inconveniente, una cosa che si risolve in pochi minuti. Il tempo di suonare l’allarme e il portiere aprirà le porte.
Già, ma se ci fermiamo tra un piano e l’altro, come diavolo fa il portiere ad aprire le porte?
Il solito drammatico-ansioso-catastrofico!
Come vuoi che faccia? Come sempre! All’ultimo piano c’è un locale-ascensore da dove si può manovrare la cabina manualmente per riportarla al piano e aprire le maledette porte. Lo sanno anche i bambini.
Al limite, se proprio non si riesce ad aprire, si chiama in soccorso qualcuno. Sulla pulsantiera dei comandi c’è sempre un numero di telefono: basta chiamare e arriva il tecnico col suo bel borsone di attrezzi che mette tutto a posto.
La mia mente galoppa alla velocità della luce.
E mentre immagino il tecnico che corre col furgone a sirene spiegate, che rimane senza benzina, che chiama un altro tecnico, che lo fanno attendere in linea tre quarti d’ora, che non ci sono più tecnici disponibili perché proprio in quel momento si sono bloccati altri cento ascensori della stessa azienda, mentre immagino anche il portiere che sale le scale con l’affanno per arrivare al locale ascensore, mi rendo conto che sono passati solo dieci secondi da quando siamo fermi tra il primo e il secondo piano. E nemmeno cinque da quando ho premuto il pulsante dell’allarme.
Lei mi guarda un po’ preoccupata e dice: «Cavolo, si è bloccato l’ascensore!»
Schiaccio di nuovo freneticamente il piano terra.
«Già, sembrerebbe proprio bloccato…» confermo, cercando di non guardarla.
Il solo fatto di ripetere che l’ascensore è bloccato mi manda sempre più nel panico. “Bloccato” è proprio un termine che non si dovrebbe usare dentro un ascensore bloccato. “Fermo” magari, oppure “in pausa”, o ancora meglio “momentaneamente indeciso se muoversi verso l’alto oppure verso il basso”…
Ma non “bloccato”!
“Bloccato” ha quel suono così irreparabile, è l’anticamera di un attacco di panico.
Che poi non posso nemmeno permettermelo, visto che sono bloccato con una ragazza che ora aggiunge anche di aver paura di rimanere intrappolata in un ascensore. E lo sottolinea pure, quell’intrappolata, come se fosse la camera della morte che tra poco si riempirà d’acqua facendoci annegare senza scampo.
«Ma no, non c’è da preoccuparsi» le dico in un rantolo strozzato con quel po’ di ossigeno che ancora mi è rimasto in corpo. «Abbiamo appena suonato e ora il portiere ci aprirà le porte. Un po’ me ne intendo di ascensori. Sono ipersicuri, hanno il doppio cavo, le guide laterali, il limitatore di velocità, il freno. E poi, in caso di guasti si manovrano a mano dall’alto…»
«Te ne intendi davvero? Sei un ingegnere?»
Ecco, ora diglielo che ti sei buttato a studiare come funziona l’ascensore solo perché eri terrorizzato di precipitare dall’ottavo piano, o di rimanere bloccato – anzi intrappolato – fino a morirci dentro per il panico. Diglielo che hai calcolato la media dei tempi utilizzati dai tecnici per ogni intervento e che solo dopo aver scoperto – statistiche alla mano – che era molto più probabile cadere dalle scale che dall’ascensore, ti sei deciso a utilizzare quello del condominio.
Invece, da bravo ipocrita, riesco anche a sorridere e a dirle che no, non sono un ingegnere, ma scrivo racconti e allora sono sempre molto curioso di scoprire come funzionano le macchine. Tutte le macchine.
Poi l’ascensore comincia a muoversi lentamente, con piccoli balzi da brivido.
«Ecco», confermo, «qualcuno dall’alto sta riportando la cabina al piano. Lo sapevo io che non c’era da preoccuparsi!» E lo dico mentre in realtà sto pensando che quei balzi potrebbero essere anche dovuti al freno che inizia cedere, o alle guide laterali usurate per un cortocircuito.
Lo dico e trattengo il fiato. La guardo, sorrido e trattengo il fiato.
Dopo un paio di minuti di apnea ci fermiamo. Provo con le mani e le porte si aprono quel tanto da permetterci di sgattaiolare fuori.
Siamo al pianterreno: mi riempio d’aria i polmoni e la vita torna a splendere in tutto il suo meraviglioso fulgore.
Ci presentiamo e lei mi chiede addirittura se gradisco un caffè al bar. Così, giusto per riprenderci.
Alla parola “caffè” mi ricordo di essere un ansioso.
Molto meglio un orzo, altrimenti sai il casino che combino?
da “VERSETTI IRONICI CONTRO L’ANSIA” di Fabio Santa Maria Incipit23 Edizioni
Ansia da ascensore, da aeroplano, da esame! Ansia di parlare in pubblico e di morire all’improvviso! Ansia senza motivo e ansia a 180 battiti al minuto! Ansia da ritardo, da parcheggio, da esame e da colloquio di lavoro. Ansia d’amore e ansia di aver lasciato aperto il gas…
Finalmente tutte le ansie del mondo unite in cinquanta micro racconti, un libro per distrarre l’ansia, per soffocarla di risate, per farla precipitare dalle scale. Con il contributo di ANA LISTA, la consulenza di MANCA LARIA e la post fazione di MORI REMO.
Disponibile subito (prima che sia troppo tardi!) nelle più ansiose librerie d’Italia e naturalmente anche online! Qui il book trailer
9 giugno 2022
GATTI E LIBERTÁ
di Troglodita Tribe
Non è un mistero che la liberazione sia un percorso lungo e difficile, che ci sia da combattere con muri e gabbie di ogni genere, ma se c’è un fatto evidente, inossidabile, senza il quale questo percorso non è neppure iniziato, è proprio la facoltà di riuscire ad immaginare questa liberazione, la facoltà di reputarla possibile, realistica, attuabile.
Chi considera la libertà una mera utopia, chi pensa all’anarchia come ad un fatto puramente teorico che non trova certo posto nella propria vita quotidiana, che non è neppure ipotizzabile in questo contesto storico, ha perso, ovviamente, ogni possibilità di liberarsi.
Franco, un anarchico che conoscemmo in un paesino nei pressi di Seborga (IM), una volta ci disse: “Io all’anarchia ci credo davvero. Sono davvero convinto che la possiamo realizzare, ma non in un futuro lontano, la possiamo realizzare nel giro di poco tempo. Se non ci credessi non sarei anarchico.”
Ed è vero, verissimo. Come si fa a credere in qualcosa che si ritiene irrealizzabile?! Nel momento in cui lo ritieni irrealizzabile, illusorio, impossibile, hai già smesso di crederci.
L’immaginario umano, però, in moltissimi casi, è talmente domato e addomesticato da non riuscire più neppure ad immaginare realizzabile non solo la propria liberazione personale (così connessa a quella collettiva), ma il concetto stesso di libertà.
Leggo da un blog di “esperti” di gatti e resto allibito: “La libertà del gatto è un concetto romantico ed attraente, ma, in pratica, è il sistema più sicuro per abbreviarne l’esistenza, sempre che non sia possibile liberarlo in un luogo assolutamente sicuro, come un cortile o un giardino chiuso da ogni parte da muri sufficientemente alti , infatti, le reti sono scavalcate facilmente e basta un albero a “portata di zampa” e l’evasione è certa.”
Evidentemente neppure la caparbia insistenza del gatto nel ricercare la sua libertà è sufficiente per far comprendere i suoi desideri, le sue intenzioni, la sua volontà. Togliere la libertà a qualcuno “per il suo bene” significa considerarlo, a tutti gli effetti, un incapace, un essere che non è neppure in grado di vivere a suo modo. Succede nei manicomi, succede con ogni forma di proibizionismo, succede quando si pretende che i nomadi non possano spostarsi come meglio desiderano, succede in tutte le forme di “educazione” repressiva e violenta. Succede perché chi è differente, chi si scosta dalle direttive indicate dal dominio, chi agisce e dimostra la propria libertà deve essere ricondotto sulla retta via, ad ogni costo.
Il gatto nero è un simbolo utilizzato dai movimenti anarchici a causa della sua indipendenza, della sua irriducibile propensione alla libertà.
Il gatto nero anarchico si chiama, genericamente, Wild Cat (gatto selvatico). È un gatto nero (molti lo intendono come una gatta nera, però) in posizione di allerta e di combattimento, con la schiena inarcata; una raffigurazione ripresa in maniera esatta dall’atteggiamento di ogni gatto che si predispone alla lotta. Tra gli anarchici è però noto come Sab Cat o Sabo Tabby: questo il nome che gli (le) diedero gli Industrial Workers of the World. “Gatto Sabotatore”, o “Sabomicio”. Non poteva essere altro che nero (nera): fin da circa il 1880 il colore nero è associato all’anarchismo, e in particolare all’anarcosindacalismo. Una caratteristica che si è mantenuta nella denominazione inglese per lo “sciopero selvaggio”, vale a dire quello intrapreso spontaneamente dai lavoratori senza nessuna “concertazione” con i sindacati ufficiali e senza preavviso: Wildcat strike. In inglese, le azioni di sciopero diretto, non mediato e a oltranza sono lo sciopero del gatto selvatico -naturalmente nero.
Rinchiudere un gatto in una gabbia, però, è un ulteriore simbolo, è la negazione della libertà, è la repressone dell’indole libertaria che incarna.
Un gatto ha bisogno di un territorio di diversi chilometri che esplora quotidianamente, marcando il terreno, appostandosi di vedetta in luoghi strategici, combattendo per difenderlo. La vita di un gatto si realizza esclusivamente in condizioni di libertà. In una gabbia o in un appartamento potrà sopravvivere, certo, proprio come un umano potrà sopravvivere dentro una cella, o costretto ad un lavoro stressante che odia, che lo reprime, che lo porta inevitabilmente alla nevrosi e alla malattia.
Se non si riesce più a concepire la libertà per le specie non umane, che sono libere per antonomasia, che fondano la loro intera esistenza sulla libertà, se vogliamo rinchiudere anche loro, come possiamo sperare di liberare noi stessi?
Del resto si tratta dell’ennesima conferma di quanto la liberazione umana sia legata indissolubilmente alla liberazione animale. Chi non è libero, chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle, vuole rinchiudere tutti gli altri. Rinchiuso in gabbie mentali, rinchiuderà gli animali in gabbie di ferro.
Chi non riesce neppure ad immaginare un mondo di libertà, lotterà inevitabilmente per un mondo fatto di muri e di gabbie. Un mondo a sua immagine e somiglianza. Un mondo che gli dia l’illusione di sentirsi al sicuro e al riparo dai rischi, dai pericoli, dagli incidenti, dalle malattie, dalla crisi. Un mondo dove di libertà si parla solo sui libri e sulle riviste.
Tutto questo ci mostra quanto il dominio di una razza, di un genere, di un esercito o di una specie sulle altre non sia soltanto causata dal des
iderio di soddisfare i propri interessi a scapito di quelli altrui, ma anche dalla paura e dalla rassegnazione. Chi viene dominato quotidianamente (al lavoro, in famiglia, all’università…) è una vittima che non potrà fare a meno di replicare e favorire la catena del dominio.
I contadini, sfruttati e angariati dai proprietari terrieri, sfruttavano donne e animali. I militari di leva, sfruttati e dominati dai superiori, tendevano a sfruttare e dominare i nuovi arrivati creando nuove gerarchie.
La catena del dominio tende inesorabilmente a replicarsi. Chi tenta di spezzarne una maglia, quando non viene soppresso, deve essere per forza relegato nel mito di una teoria irrealizzabile.
Chi è stato domato non riesce più a sopportare la vista della libertà. La libertà vissuta, per chi è rassegnato, risulta una luce fastidiosa e abbagliante.
La vista di un gatto libero infastidisce alcuni “protezionisti” proprio come tanti anni fa la vista di un giovane hippy infastidiva la benpensante borghesia. La vista di un gatto libero, senza futuro, senza alcuna sicurezza, scatena quel finto amore che spinge a rinchiuderlo per prolungargli la vita.
Ma un gatto libero non è un’anima in pena alla ricerca di un padrone che lo accudisca. In realtà il gatto non è mai randagio, ma sceglie una zona che reputa adatta per la sua sopravvivenza e, nonostante i lunghi vagabondaggi, torna sempre nella sua zona. Quando il territorio è particolarmente promettente si possono formare, in maniera del tutto spontanea, delle colonie feline: vere e proprie comunità di gatti liberi. Ed è proprio in questo contesto che è possibile, casomai, aiutare e curare i gatti senza imprigionarli.
Ma come si fa per i gatti che vivono da sempre in un appartamento di città? Come è possibile liberarli se si abita al settimo piano di un palazzo nel pieno centro di una metropoli?
Di certo non è un’impresa semplice.
Tanto per cominciare occorrerebbe realizzare che questo gatto ha comunque un gran bisogno di riacquistare la sua libertà, di assaporarla, di viverla, proprio come chi ha scelto la sua compagnia.
Ed è proprio osservando il gatto che questa persona potrebbe acquisire la reale consapevolezza di quanto la libertà sia indispensabile per una vita degna di questo nome. L’attenta e paziente osservazione del gatto, in effetti, ci pone nella mirabile situazione di allargare le nostre percezioni, di entrare finalmente in sintonia con il gatto nero dell’anarchia che mai si rassegna e mai smette di lottare per la sua libertà.
Entrare in sintonia con questo spirito felino e ribelle mostrerà con chiarezza un nuovo atteggiamento di apertura convincendoci definitivamente che chi condivide una gabbia con un altro essere, invece di trattenere il suo compagno, dovrebbe architettare insieme a lui un piano di fuga.
E allora, questa persona, potrebbe cominciare a portare se stesso e il gatto in situazioni di libertà, che siano per entrambi possibili e vivibili. Dovrebbe industriarsi per guarire e lasciare andare la paura che lo sta trattenendo, per abbandonare la sua stessa cella che rende impossibile la libertà al gatto, e trovare una sistemazione in cui un umano e un animale possano convivere senza costringersi, senza rinchiudersi, senza rinunciare a tutte le potenzialità dei loro corpi e delle loro menti. Certo, la mancanza di denaro e la mancanza di quell’illusoria sicurezza che imprigiona quotidianamente la maggior parte di noi umani, potrebbero essere degli ostacoli non indifferenti, ma superare questi subdoli condizionamenti è oramai il minimo che possiamo fare, se ancora abbiamo il coraggio e l’ardire di pronunciare la parola libertà.
Per farla breve, occorrerebbe essere così pazzi da cambiare casa e vita per il proprio gatto (che ovviamente non è di nessuno se non di se stesso). Perché il significato di voler bene a un gatto che vive rinchiuso può essere identificato solo nell’aiutarlo a ritrovare il senso della sua vita, che è la libertà.
E poi, riuscendo in questa mirabile impresa, avremo dato un senso anche alla nostra di vita. Avremo aiutato davvero un individuo che amiamo: il gatto, ritrovando insieme a lui la nostra libertà.
28 Maggio 2022
L’ORECCHIA SULLA PAGINA
Ho sentito di lettori che, oltre ad incriminare volentieri gli autori delle orecchie, andavano orgogliosi di aprire il tomo senza allargarlo più di tanto in modo da mantenere quella parvenza di nuovo, quella freschezza di stampa, quell’illibata purezza da libro appena colto in libreria o, ancor meglio, appena uscito di tipografia.
Gente che il libro è mio e guai a chi me lo tocca, gente che i libri non li presta più, per nessun motivo al mondo, perché quella volta non glielo restituirono e lui volò libero di mano in mano, senza mai più fare ritorno sulla teca polverosa dove l’avevan confinato.
Ho sentito di lettori che, sul treno, di fronte all’autore di un’orecchia, provavano malessere e preferivano cambiar di posto. E quasi, in tutto il vagone, si poteva percepire quel loro afflato di disprezzo, quel loro sentirsi superiori, nobili di rango e di cuore di fronte alla brutalità del mondo che torturava la bellezza e la poesia, che non poteva capirla e non sapeva parteciparvi, perché faceva l’orecchia al libro.
E li osservavo spesso questi lettori.
Passò un periodo in cui ne venni quasi contagiato. Mi attraeva fatalmente quel loro altezzoso amore, quella loro delicatezza altolocata, quel loro atteggiarsi a poeti del libro, gli unici che potevan percepirne l’energia sottile.
Perché anch’io amavo i libri. Tutti i libri. Davvero, per il solo fatto che fossero libri mi tiravano come calamite. Solo che l’infatuazione per i lettori che facevano la guerra all’orecchia sulla pagina durò poco. Durò finché non mi chiesi seriamente che cosa fosse un libro. Arrivai alla conclusione che l’oggetto sul quale si facevano o non si facevano le orecchie, era solo una manifestazione del libro, di quel determinato libro che viveva in migliaia di altri luoghi: librerie, case, biblioteche, zaini, borse, scrivanie, centri commerciali, lavanderie a gettone, barbieri, sale d’aspetto.
Amare “1984” di Orwell, allora, non significava rispettare l’integrità di quella determinata copia finita accidentalmente nelle mie mani, di quell’edizione particolare che mi avevano regalato e che conservavo da anni. Limitarsi a questo amore, a questo rispetto, sarebbe stato come confondere il dito che indica la luna con la luna stessa.
Amare “1984” di Orwell, allora, doveva esser cosa assai più elaborata. Occorreva far vivere quel mondo – perché ogni libro è un mondo – il più possibile, farlo risuonare in quella dimensione che ci ostiniamo a chiamare realtà nei modi più diversi.
Occorreva aprirlo milioni di volte, farlo girare, prestarlo, regalarlo, comprarlo, leggerlo ad alta e bassa voce, velocemente saltando anche qualche riga per la fretta di arrivare fino in fondo, oppure con la massima lentezza respirando con calma ad ogni virgola. Occorreva lasciargli addosso i segni del passaggio dei lettori, che per un libro sono i segni del tempo, i segni della vita che si vive, le prove che non si è stati sempre chiusi in un cassetto, o schiacciati in libreria. Perché la vita, i segni, li lascia addosso a tutti, e la bellezza, quella vera, la puoi leggere proprio scorrendo questi segni che raccontano come te la sei giocata.
E allora compresi che anche le orecchie, anche loro entravano nella magnifica danza del libro. Perché un libro rispettato in quella vecchia maniera compunta sarebbe stato, inevitabilmente, un libro poco usato, poco vissuto, poco letto, sempre più lontano dalla nostra dimensione.
Quando m’imbattevo in un libro usato, allora, raddrizzavo qualche orecchia, sfilavo qualche vecchio biglietto, gustavo noterelle a matita, sopportavo dediche melense, e mi sorbivo pure file tremolanti di sottolineature senza batter ciglio.
Avevo tra le mani un volume che aveva viaggiato, ed era meraviglioso immaginare come quella storia, quel mondo che conteneva fosse stato condiviso da tante persone. Avevo un libro carico di emozioni, un oggetto con un’anima e con un cuore che sentivo palpitare,
Tratto da “Sempre e solo libri usati” di Troglodita Tribe autoproduzione realizzata manualmente con scarti cartacei
4 marzo 2017
BASTA, TORNO AL CARTACEO!
Dopo un paio d’anni di lettura virtuale durante i quali ho sperimentato tutte le gioie leggere del poter leggere tutti i libri del mondo in un solo reader che puoi portarti ovunque, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, nella piena consapevolezza dei grandi vantaggi della lettura notturna retroilluminata che, però, ti stacca a morsi il ritmo sonno-veglia sconvolgendo i ritmi circadiani http://www.adolescienza.it/social-web-tecnologia/la-lettura-di-e-book-la-sera-concilia-veramente-il-sonno/, scelgo, abbandonando ogni intento belligerante nei confronti della tecnologia che fa passi da gigante, informato sui prezzi più convenienti sia per chi compra, sia per chi edita, sia per chi autoproduce ebook, di tornare comunque al cartaceo.
Non butterò nella spazzatura il mio reader come feci tanti tanti anni fa con la televisione (quando si è giovani si è felicemente e anche ingenuamente portati all’estremismo) , lo terrò, anzi, in bella mostra, casualmente appoggiato su un tavolo, su un comodino, su una mensola… Lo terrò e, ogni tanto, tornerò a leggerci qualche thriller, ricordando i vecchi tempi andati, quei due anni in cui lessi solo con lui, solo su di lui. Ricorderò quel periodo con la tipica nostalgia di un passato che racconti senza problemi, con quel sorriso leggero di un’esperienza vissuta che è parte essenziale della tua biografia, ma che non ripeteresti per nulla al mondo.
Sì, mi ci vedo, mi ci vedo proprio, comincerei a raccontare cercando di descrivere l’infinito che ti si apre davanti quando qualcuno ti regala un reader aggiungendo pure la diabolica opzione di poter acquistare tutti i libri che vuoi perché è connesso alla sua carta di credito, non alla tua. Quella strana e prepotente sensazione di onnipotenza libraria, quel sentirsi armati dal magico potere di un clic che ti permette, davvero, di accedere a qualunque libro ti passi per la testa in quel preciso momento. E poi vederli che si accumulano nel cloud con quelle loro micro copertine che scimmiottano il libro di carta. E poi leggerli ovviamente. Sentire come ti scivolano addosso in maniera così diversa.
Uno dei motivi fondamentali che mi ha spinto al ritorno al cartaceo, in effetti, è proprio questo strano fatto. I libri di quei due anni non li ricordo quasi più. Prima, quando leggevo solo il cartaceo, un libro letto mi rimaneva addosso per anni, poi magari non riuscivo a rievocarne la trama in tutti particolari, ma il cuore del libro restava lì, con quel suo grumo di energia vibrante che ho sempre chiamato il cuore del libro, proprio ciò che per me distingueva un mucchietto di fogli rilegati da un libro. Con gli ebook non succedeva! Un fenomeno dovuto alla struttura spaziale del libro di carta e di come funziona la nostra memoria, di come stiamo perdendo la nostra competenza spaziale. Lo spiegava già nel 2003 Ruggero Pierantoni, uno dei più singolari studiosi di percezione (per approfondire la questione http://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/perche-non-ricordo-gli-ebook) ma allora, ovviamente, non lo sapevo.
E’ singolare notare, poi, che non sempre una nuova tecnologia finirà per soppiantare quella vecchia. E non si tratta semplicemente di sacche di resistenza, di un pugno di nostalgici della carta. La carta, nei fatti, non scompare, così come l’ebook, nei fatti, non esplode.
Ieri sono andato alla presentazione di un libro: “Quasimodo e La Pira operaio del sogni e operaio del vangelo” di Grazia Dormiente. Ed è stata proprio l’autrice a sottolineare che quell’inedito carteggio non sarebbe mai giunto fino a noi senza la carta. Senza la carta si sarebbe perso nel marasma delle mail che, ovviamente, nessuno scrittore e nessun poeta conserva più; e che, ancor più ovviamente, nessun professore e nessuno studioso potranno mai ritrovare e pubblicare.
Ma sì dai! Torno serenamente al cartaceo, torno ad usare biglietti del tram e improbabili striscioline di carta per tenere il segno, torno al caotico disordine di quella colorata e possente montagnola di libri che svettava accanto al materasso del mio soppalco. Torno a quel supporto cartaceo che, come scrisse da qualche parte Franco del Moro di Ellin Selae, puoi anche lanciare dalla montagna, andartelo a riprendere ed essere sicuro che potrai leggere ancora il suo contenuto.
6 dicembre 2016
CONOSCI QUESTA LINGUA?
La comunicazione fa passi da gigante.
Come una scienza sciolta nel magma tecno-mediatico, come uno scioglilingua da recitare a mò di mantra modaiolo, la comunicazione s’impone sin dai primi passi scolastici. Alzi la mano chi non parlicchia l’inglese, chi non s’arrabatta con almeno due o tre lingue diverse dalla madre. Tante figlie e figliastre indispensabili da portarsi sulle spalle per respirare, per sapere, per farsi sentire con quel flebile afflato infervorato e laureato con cui partecipiamo al mondo, con cui recitiamo la parte assegnata.
Bello, certo!
Ma pare che nel frattempo, proporzionalmente e inesorabilmente, un’altra lingua tenda a scomparire lasciando un vuoto di glaciale e impeccabile superficialità nella comunicazione sempre più veloce dei nostri giorni. E’ la lingua della solidarietà. Un modo di parlare e di percepire che davamo per scontato. Una grammatica con poche semplici regole che consentivano di esprimere concetti comuni, prassi elementari, riferimenti scontati a cui ci appoggiavamo senza paura per disegnare il paesaggio della nostra esistenza.
Mutuo aiuto, condivisione, opposizione ad ogni forma di ingiustizia anche quando non ci riguarda direttamente. Quel senso di esser parte di un popolo, di un pianeta, quel senso di fastidio e di oppressione situato proprio in mezzo al petto di fronte alle prepotenze, alle sopraffazioni, alle ricchezze sproporzionate e platealmente stonate. Una lingua, questa, parlata sempre meno, con un vigore che va scemando passo dopo passo, che si sussurra ormai sull’orlo dell’eccezione, o giusto con la tipica accezione religiosa, caritatevole, buonista, eroica. Sempre più lontana, quindi, da quel sentire comune che diviene il passo con cui camminiamo nel mondo, con cui costruiamo nuovi mondi.
Una lingua, questa, che appare sempre meno umana, sempre meno al passo con i tempi, sempre più distanziata dalle nuove esigenze di sicurezza, ricchezza, lavoro che chiedono, al contrario, di respingere, di costruire muri, di distinguere.
Una lingua, la cui assenza, porta al disfacimento collettivo e ad una povertà interiore senza precedenti. Ci porta un mondo ricco che ha bisogno di leggi contro lo spreco alimentare, che muore di benessere e spazzatura, ma che è terrorizzato dal mondo povero che chiede quella solidarietà e quella condivisione che, da sempre, sono l’indispensabile preludio alla ricchezza collettiva.
Una lingua, quella della solidarietà, che, sotto sotto, conosciamo tutti. Che non si studia con il vocabolario, ma che potrebbe essere eletta a lingua universale, un nuovo spazioso esperanto che sa di speranza. Una lingua che potremmo recuperare in modo inedito e sorprendente partendo dal principio di tutte le ingiustizie, partendo dal basso, ma da così in basso da risultare spiazzante anche da tutte le altre lingue con tutti i loro significati allineati.
Dagli animali ovviamente.
Da una solidarietà così potente, l’unica realistica, da abbattere ogni muro, anche quello di specie.
Una lingua, in principio umana, che si affaccia da una strana finestra, che prova a perdersi e a perdere quelle sue gelide sembianze onnipotenti da comunicazione di servizio.
21 settembre 2015
LIBERSALONE MILANO 17-18 OTTOBRE 2015 A MACAO
Non crediamo più in un solo libro, unigenito figlio dell’Editore, nato in tipografia e distribuito in libreria. Non crediamo più in un solo libro, padre onnipotente ed eterno dispensatore di fama, oggetto di culto seriale da moltiplicare papale papale.
Crediamo in un libro pagano, libello ribelle che ribolle nelle sue infinite, fantasmagoriche e pirotecniche varianti creative, crediamo nell’anarchia di forbici, timbri, strappi e collage, crediamo negli schizzi di parole ululanti su pagine sempre diverse, crediamo nella rivolta del libro cucito a mano che ruba briciole pubblicitarie nel pulviscolo di microtirature post-pop-spettacolari.
Noi ci crediamo nella libertà dei libri. E ce la prendiamo! Cascasse il mondo la porteremo a Liber il primo Salone dei libri liberi senza prodotti animali (finalmente…era ora!).
Troglodita Tribe
Non siamo in libreria, ma siamo per la Liberazione Animale
Facciamo libri, ma solo con scarti cartacei.
Scriviamo testi, ma solo fuori di testa.
Sito ufficiale di LiberSalone con tutte le info e il programma http://www.libersalone.altervista.org/index.html
14 agosto 2015
STRANe Idee PER la TESTa

La patente d’artista è un potenziale e satirico gesto antiartistico che qualifica irrimediabilmente chi la possiede come un artista patentat*. L’artista patentat*, proprio perchè artista, nel compilarla (foto artistizzata, frammento di opera d’arrte, elaborazione artistica dell’impronta del pollice…), rende la sua patente un’opera d’arte antiartistica. Artista e patente sono complementari e, proprio per questo, di poli opposti. Arte e antiarte si coniugano in un giocoso cocktail esplosivo nel tentativo di salvare ciò che resta dell’arte.
Avere almeno un’idea al giorno è il mantra lampeggiante e psichedelico che abbiamo ereditato da vecchi guru trogloditi ancora persi nell’incantevole bosco incantato… Vecchie visioni extrasintattiche e paraletterarie consegnate al portalettere senza un briciolo di affrancatura.
Un’idea al giorno per sopravvivere sbancando il lunario immaginario di una diversa astronomia fantastica, di un’atomica autonomia automatica dei sensi insensati d’incenso… Così, giusto per non cedere la luna e scrivere fino alla una. Finché la gRANDE dEA non ci separi, finché i potenti spari delle parole ancora ci proteggono.
STARTUP
Nella new economy: azienda, di solito di piccole dimensioni, che si lancia sul mercato sull’onda di un’idea innovativa, specialmente nel campo delle nuove tecnologie.
WRITEDOWN
Nella Narrativa paroliberistica prosssima ventura, quella del futuro futuribile fruttato fluorescente, quella della fine del postromanzo, quella dell’inizio dello PSEUDOromanzo,quella del ritorno al pataromanzo (ci risentiremo sul pataromanzo, ovvero il romanzo patafisico!!!): buttar giù le idee per iscritto, farlo di fretta, come l’appunto di un appuntamento. Lasciarsi andare nel gorgo fluente e furente dell’idea, finché ce n’é, finché si può, finché regge;soprattutto senza insistere, forzare, arzigogolare e romanzare come facevano gli antichi antenati intorno ai fuochi della letteratura classica.
Ora proviamo a immaginare un marketplace delle idee letterarie. Milioni di scriventi con tutte le loro idee iniziate e buttate giù in magnifici WRITEDOWN turbinanti e caotici. DisOrdinati in relazione al soggetto, al personaggio, alla situazione, al paesaggio, alla dimensione, alla consistenza…
Ti serve una descrizione, un frammento di trama, un micro assaggio sull’uso di vecchie armi, un’atmosfera claustrofobica da sottomarino, un’espansione cosmica di un mezzo budda che profuma di loto? Hai presente tutti quei flash sorridenti che ti si presentano irruenti? Che vorresti scrivere al volo e poi cucirli nel tuo testo, ma che non si può per le mille ragioni limitanti e illimitate? Basta andare sul MARKETPLACE DEI WRITEDOWN e il gioco è fatto!
Siamo ad un passaggio epocale per la scrittura. E’ come passare dal calcolo a mente alla calcolatrice, dall’enciclopedia alla rete. Miliardi di WRITEDOWN in download gratuito, uno streaming cosmico delle idee letterarie condivise e già pronte come frammenti di libri veri. Basta immetterne una e puoi usufruirne a miliardi. Basta inseguire qualche tag e arrivi al punto, la tua idea prende corpo, ha già un corpo e poi la tagli, la incolli, la allunghi, la accorci, la manipoli, la contorci, la cambi, la scambi, la moltiplichi, la rimetti nel MARKETPLACE.
L’opposto della difesa delle idee è la proliferazione indiscriminata delle stesse.
REGALARE LE PROPRIE IDEE
E’IL SEGRETO DELLA VERA RICCHEZZA
…e l’unica concreta possibilità per ottenere la patente
7 agosto 2015
PRENDETE IL MASCHILE E IL FEMMINILE E… FATELI A FETTE
Ahhh…. La Liberazione! Le liberazioni interiori, esteriori, politiche, fonetiche, sessuali, spirituali, musicali, linguistiche….. E le Liberazioni Umane e Animali con tutti i loro derivati, annessi e connessi nei vari consessi. Queste liberazioni che son tutte la stessa liberazione.
Unica figlia dissenziente e dissennata. Antitutto per eccellenza! Sovvertitrice e sovversiva, sorprendente e intraprendente, dirompente ed esplosiva, oltre il limite del limite del limite. Perché liberazione è andare oltre. Un passaggio che cambia il paesaggio, che amplifica la percezione, che avvicina la perfezione.
Un’intersezione rapida che connette in una scommessa clandestina tutti i nostri destini, che incita a deragliare, disobbedire, disertare, cancellare, rialzarsi per ricominciare.
La liberazione presuppone la forza di deragliare dal percorso stabilito.
Abbiamo binari che ci portano ovunque. Binari per amare, binari per lavorare, binari per comunicare, binari per confrontarci, per definirci, per usarci….
E naturalmente abbiamo binari che accompagnano i testi che abbiamo in testa, che regolano l’energia regalata dalle nostre parole scritte, che ammaestrano i pensieri concessi e connessi alle righe che lanciamo nelle gabbie mentali dell’infosfera mediatica.
Prendete il maschile e il femminile e… fateli a fette!
Illusoria rappresentazione di un mondo al tramonto.
Ancora pretende il primato del “Tutti liberi” che desertifica irrimediabilmente l’emozionante molteplice delle identità, delle differenze, delle sfumature; che opprime, insulta e cancella quell’altalenante ambiguo plurale di mezzitoni e chiaroscuri: l’alchimia feconda che trasforma il piatto paesaggio in capolavoro.
Durante le prove tecniche di liberazione siamo tutt* liber*, tutt* sospes* con tanto d’occhi e bocche spalancate ad osservare l’ambiguo democratico, quasi anarchico, insinuarsi dell’asterisco tra le righe quotidiane. Ogni asterisco è una domanda senza risposta. Ogni asterisco apre a tutte le diverse e controverse potenzialità. Ogni asterisco sospende il fluire della lettura, con quella sua domanda impertinente disorienta la vecchia suddivisione del mondo… e il modello codificato si mette in coda con tutt* gli altr*, e l’uomo scende dal trono.
L’assalto frontale dell’asterisco è sempre più evidente e sfacciato, vera e propria torta in faccia alla certezza, stratagemma poetico-politico che interrompe, rompe, oppone e contrappone in un lampo, in un gesto, in un segno.
*******************************************************************
Un grazie speciale a frantic & feminoska per il loro articolo “CHI HA PAURA DELL’ASTERISCO” che felicemente ispirato questo nostro post.Cos’è un asterisco? Una stella che luccica in fondo ad una parola, il piccolo scoppio che segue una detonazione di vocali, un’anomalia agrammaticale che punta le sue piccole dita all’omissione consapevole di tutt* coloro che non sono compres* nell’ideologico “neutro universale”, ovvero il privilegio del maschile.
(qui tutto l’articolo http://intersezioni.noblogs.org/condivisioni/chi-ha-paura-dellasterisco/)
8 luglio 2015
SCRIVERE AI TEMPI DELL’ECO-EDITORIA CREATIVA

Cruciverba Cruvivolant di Paolo Albani (semi-semiologo e falsario) (clicca sull’immagine per andare sul suo sito)
Scrivere ai tempi dell’eco-editoria creativa mette in luce il lato giocoso, surreale, provocatorio.
Se la forma libro che costruiamo, inventiamo e componiamo è un’ardita variazione sul tema, una sperimentazione evasa dal normale immaginario libresco che domina e dirige, per ottenere dirompente armonia caotica, anche il testo dovrà irrompere su simili percorsi, deragliando sferrragliante e zig-zagante da ogni binario, trinario, terzina e terzino destro, sinistro, avanti, indietro, sopra e sotto.
Anzi, visto che forma e contenuto si fondono squagliandosi fino a congiungersi nell’impassibile impossibile dell’indistinguibile, non dovremmo neppure inginocchiarci ad una gerarchia.
La prepotente e indisponente fisicità sperimentale del libro, allora, entra, con leggiadre e sinuose testate nel testo, e il testo, testualmente, riesce ad affacciarsi sfaccciato ovunque.
Incursioni, escursioni, intrusioni, torsioni di parole palpitanti nel pulp supremo proprio sotto il palco, proprio sotto i novantamila watt di un superbo sound di sax.
Daltronde il senso dell’Eco-Editoria Creativa è proprio quello delle incursioni. Interventi e azioni e manipolazioni cartacee che possono manifestarsi come macchie, timbri, strappi, disegni che strillano in streaming sulle parole, francobolli inventati e tatuati tra le righe, tendine rotonde per pasticcini, ricami che richiamano petulanti a piè di pagina, inserimenti di oggetti spiaccicicati che invadono eversivi la facciata animando il testo, correggendolo, deviandolo dal comune senso del pudore editoriale, quella sua coazione seriale di prodotto infinito in un mondo finito, quasi sfinito
E le parole, allora, devono trovarsi nella giusta dimensione, su quella lunghezza d’onda, finanche un po’ tonta, che permetterà loro di animarsi, di prendersi il permesso di alzarsi e volar via verso l’orizzonte infinito, scavalcandolo di varie misure, altalenando, traballando, incespicando nei magnifici bisticci che blaterano grammaticalmente blasfemi.
Vorremmo parole che escano dalle righe e righe che cessino di essere allineate, alienando e allietando l’essenza della sostanza dell’invisibile. Sia nella loro forma che nel loro significato, nel loro messaggio, nel loro suono, nel ribaltamento dei punti di riferimento a cui siamo abituati, a cui ci hanno irregimentati.
Rime, assonanze, allitterazioni, giochi di parole….ampio spazio alla musicalità. E per quanto riguarda i generi: fantamanualistica (manuali inventati di macchine inventate) Botanica immaginaria, Fanta-astronomia poetica… Ricettari di insolite minestre che usano il bollire, il mantecare, il soffriggere, lo stufare per cucinare testi che nulla hanno a che fare con il cibo. Alberari Immaginari: un albero inventato per ogni collage. Lunatici calendari dove il tempo non è denaro, ma è arte che interpreta in altri modi alteri, alternativi, altermodisti, un po’ alterati e un po’ altruisti, lo scandirsi scandaloso delle fantastiche fasi, anche fanatiche, delle mille esistenze possibili.
L’utilizzo di materiale recuperato (tipico dell’Eco-Editoria Creativa) come le cartoline, i cartoni dei supermercati, le cartellette da ufficio, la tappezzeria, i biglietti del tram, i pacchetti di fiammiferi creano straniamento. Il senso avverte un sensuale mal di testa. Il messaggio, la portata mediatica si fa più simpatica, quella energetica meno frenetica. Il destino di questi oggetti viene ribaltato, rivitalizzato, resuscitato. Un gioco che disorienta creando meticciato significante, caos romazesco nel bel mezzo di quel poliziesco quotidiano che è il normale scandirsi di ciò che insistiamo a considerare realtà. Lo stesso flah andrebbe provocato con il testo. Dovremmo usare parole, generi, forme, visioni, associazioni, probalità e imprevisti ribaltando il normale assetto nel quale siamo abituati ad aspettarli, catturarli e sistemarli ordinati.
Testi, per farla breve e bersela tra amici, amiche e compagnie scriventi, che si allontanano da quella mentalità da capolavoro, opera immortale, centomila copie tanto per cominciare poi si vedrà. Testi più vicini alla letteratura marginale, alle scritte colorate sui muri.
Il libello creativo, per sua natura è effimero, lascia tracce meravigliose, è vero, ma spariranno in fretta come magnifiche impronte sulla neve al primo sole. I materiali usati, le rilegature non professionali, il concetto di autoproduzione che richiede la non specializzazione, che richiede l’essere autodidatti, il lanciarsi per essere scrittrici, illustratori, editrici, correttori di bozze, distributori, promotrici, magazziniere…. implica inevitabilmente un prodotto effimero che non può e non vuol seguire le regole che lo rendono accettabile e riproducibile dal comune senso del pudore editoriale.
E questa, per chi scrive è la sfida delle sfide. Il ritorno alle domande originarie.
Perché scrivo? Per chi scrivo? Fin quando continuerò a scrivere?